1. Nell’ultima parte dell’anno scorso e nella prima parte di quello che si va chiudendo, il miglioramento dei parametri economici, la fiducia delle famiglie e delle imprese, le positive dinamiche industriali e dell’occupazione facevano percepire la possibilità concreta di vedere completato il superamento della crisi e dei dubbi sul nostro modello di sviluppo, e di vedere avviato un nuovo ciclo di crescita dei redditi e del benessere. La ripartenza poi non c’è stata: è sopraggiunto un disallineamento, un inciampo, un rabbuiarsi dell’orizzonte di ottimismo e di rinvigorimento dei comportamenti individuali e collettivi e della loro vitalità economica.
2. Gli esempi di manifesto e strutturale ritardo nel progresso delle funzioni sociali sono sotto gli occhi di tutti: lo squilibrio dei processi d’inclusione dovuto alla contraddittoria gestione dei flussi d’immigrazione; l’insicura assistenza alle persone non pienamente autosufficienti, interamente scaricata sulle famiglie e sul volontariato; l’incapacità di immaginare e ancor di più sostenere politiche di contrasto alla denatalità; la faticosa gestione della formazione scolastica e universitaria, con un vistoso calo di reputazione; il cedimento rovinoso della macchina burocratica pubblica e della digitalizzazione dell’azione amministrativa; la scarsità degli investimenti in nuove infrastrutture o nella manutenzione di quelle esistenti; il ritardo nella messa in sicurezza del territorio o nella ricostruzione dopo le devastazioni per alluvioni, frane o terremoti.
3. Guardando agli ultimi mesi, segnati da un rallentamento degli indicatori macroeconomici, da un volgersi al negativo del clima di fiducia delle imprese, da un impoverimento del vigore della crescita, dal rinforzarsi di vecchie insicurezze nella vita quotidiana o dal costituirsene di nuove, verrebbe da pensare che tutto arretra. Specie se si guarda, nella cronaca quotidiana, al rapido affermarsi della convinzione che siamo oggi nel bel mezzo di un annunciato ritorno a una economia dello “zero virgola qualcosa”.
In realtà, la società italiana, per quanto granulare, frammentata, poco incline a spingere in avanti il Paese nella sua interezza, ha trovato in sé l’energia sufficiente per adattarsi ai tempi e alle regole del progresso economico, ha creduto anche all’ultimo residuo di quella cultura progettuale e riformista che pure tanti danni ha fatto nella storia del nostro Paese, ma che garantisce almeno linee d’intersezione attorno alle quali aggregare energie positive, sia economiche che sociali.
4. La ripresa economica nel 2017 e nei primi mesi di quest’anno, e la sua rapida messa in attesa nella seconda metà del 2018, mostrano la fine di un lungo ciclo di sviluppo nel quale lente e silenziose trasformazioni, convergenze d’interessi, ritrovato desiderio di mediazione e di sintesi socio-economica, sovrapposizioni di spazi di responsabilità preparano il terreno di un nuovo modello di perseguimento del benessere e della qualità della vita.
Nel sottofondo delle dinamiche collettive comincia a vedersi il risultato di un lungo sobbollire dell’autonoma tensione alla solidità e alla maturazione del corpo sociale. L’efficacia dei processi in atto conferma l’antica verità che solo le risoluzioni delle crisi inducono uno sviluppo.
5. Sono diversi anni che questo Rapporto sottolinea come la società italiana viva una crisi di spessore e di profondità e come gli italiani siano incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro. Ogni spazio lasciato vuoto dalla dialettica politica è riempito dal risentimento di chi non vede riconosciuto l’impegno, il lavoro, la fatica dell’aver compiuto il proprio compito di resistenza e di adattamento alla crisi.
L’impresa che ha saputo ristrutturarsi, anche a costo di sacrifici e di tagli occupazionali, non trova risposte nella modernizzazione degli assetti pubblici, nel fisco, nella giustizia, nelle reti infrastrutturali, nella ricerca. L’operaio, il dirigente, il manovale, il libero professionista o il commerciante che hanno affrontato la crisi economica hanno atteso, troppo spesso invano, il miglioramento del contesto che a quegli sforzi dava senso e direzione. Le famiglie e le aziende che si sono sostituite al welfare pubblico hanno sperato in una qualche forma di uscita dalla provvisorietà e dalla transizione, ma hanno poi finito per rimanere via via più isolate. La solidarietà diffusa e le imprese sociali sentono venire meno la trama e l’ordito culturali sui quali poggiano.
6. L’interpretazione sistemica della società come articolato complesso di strutture e d’interazioni non è più sufficiente a capire le nuove direzioni di sviluppo. Le sconnessioni sono parte del modello di società che il progresso ha saputo costruire e la dialettica nella quale siamo immersi pone sempre meno un problema di modernità delle strutture e sempre più un richiamo alla capacità di stare nel tempo, di muoversi lungo le proprie meridiane, arricchendole e accendendone i processi di espansione.
7. Segnali di quei movimenti obliqui che da tempo mancavano trovano riscontro in alcuni deboli fenomeni che lentamente si affermano in questi ultimi mesi: la ripresa della fiducia e degli investimenti nel settore delle costruzioni, dopo tanti anni di progressiva e strutturale decadenza; il consolidarsi di una positiva bilancia commerciale della tecnologia; il primato italiano nella economia circolare, con uno spread tecnologico positivo e in costante miglioramento rispetto al sistema industriale tedesco; l’affermarsi e il crescere di reputazione e fatturato dei tanti soggetti dell’economia esplorativa (dalle piattaforme per i portapacchi dell’era digitale ai riconoscimenti internazionali in tanti fondamentali settori dell’industria e della ricerca globale); il prepotente e drammatico ritorno di attenzione sull’economia della manutenzione e sull’uscita dalla cultura e dalla politica dell’emergenza come fattore determinante per l’intervento pubblico.
8. Nella dimensione obliqua si rinnova anche il ruolo della rappresentanza. La crisi dei corpi intermedi e delle figure collettive non dipende solo da verticalizzazione del potere, personalizzazione della politica o disintermediazione della classe dirigente. Deriva anche dal fatto che l’azione collettiva, vera figura portante dello sviluppo del secolo scorso, non è più ispirata dalla domanda di trasformazione dell’organizzazione economica e sociale; non riflette più l’aspirazione, l’impegno, l’affermazione di un sistema più moderno, organizzato, funzionale di società.
Andiamo da un’economia dei sistemi verso un ecosistema degli attori individuali, verso un appiattimento della società, verso un corpo sociale in cui la domanda di dimensione individuale è tanto più forte quanto più cresce la complessità della rappresentanza nelle istituzioni e nello Stato.
9. In un ecosistema di attori ‒ e qui sta la potenza del cambiamento ‒ ciascuno afferma un proprio paniere di diritti e perde senso qualsiasi mobilitazione sociale. Ognuno organizza la propria dimensione sociale fuori dagli schemi consolidati: il lavoro dipende da qualche specializzazione e quindi non ha un padrone, ma tanti committenti; ci sono per ciascuno momenti di successo e momenti di regressione; convivono in armonia interessi diversi e anche contrapposti; non si opera più dentro le istituzioni per cambiarle, ma ci si mobilita al di fuori.
10. Il sistema sociale, attraversato da tensione, paura, rancore, guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, rompe l’empatia verso il progresso, teme le turbolenze della transizione. Il popolo si ricostituisce nell’idea di una nazione sovrana supponendo, con un’interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale.
I riferimenti alla società piatta come soluzione del rancore, e alla nazione sovrana come garante di fronte a ogni ingiustizia sociale, hanno costruito consenso elettorale e sono alla base di tanto successo nei sondaggi politici in Italia come in tante altre democrazie del mondo. Al contrario, la politica vince se resiste alla tentazione di appiattimento, se afferrando la richiesta d’individualizzazione evita di concentrarsi su una sola linea del fronte dei processi collettivi, se interpreta fino in fondo la domanda di distinzione, se intercetta senza adattarvisi i gusti dei committenti.
11. In tanti abbiamo detto e ripetuto che siamo di fronte a una politica dell’annuncio. Non va però dimenticato che la funzione politica, la responsabilità della classe dirigente, il ruolo dell’establishment stanno proprio nel proporre una prospettiva nel futuro. L’annuncio senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al proprio progetto politico, da profetico si fa epigonale: una sbiadita e superficiale imitazione di un illustre precedente.
Ignorare il cambiamento sociale è stato l’errore più grave della nostra classe dirigente del trascorso decennio. L’errore attuale rischia di essere quello di dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso, diseguale, pieno di singolarità umane e collettive. Se ci si appiattisce al loro presente si finisce per restare prigionieri di impulsi disarticolati e giocati solo sul presente. Meglio prendere coscienza di avere di fronte un ecosistema di attori e processi: governarlo non significa riformare i suoi più visibili comparti, ma ricercarne il senso condiviso.
Ritorna allora il bisogno di un dibattito serio sull’orientamento del nostro sviluppo e sulla capacità politica di definirne i nuovi traguardi. Una volta si sarebbe detto che ritorna il classico tema dell’egemonia e del ruolo delle élite. Senza troppa nostalgia, basterebbe una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi.