Roma, 5 dicembre 2014 – Capitale culturale di un territorio: chance di crescita non solo economica. In Calabria si possono annoverare nel patrimonio giacente (l’eredità materiale delle espressioni culturali del passato) 13 siti archeologici e complessi monumentali, 284 musei, archivi e collezioni, 646 beni vincolati. A questi si aggiungono 72 comuni con patrimonio edilizio storico, 159 centri storici e insediamenti minori suscettibili di tutela e valorizzazione, 13 fra i borghi più belli d’Italia e borghi autentici. Il capitale culturale vivente in Calabria contempla nel 2013 un palinsesto di 39 grandi eventi di qualità con una estesa partecipazione (1,3 milioni di presenze, con una media di circa 35.000 partecipanti a evento), un elevato coinvolgimento del territorio (67 comuni), un volume di spesa che ha sfiorato i 55 milioni di euro e un moltiplicatore, rispetto al finanziamento, vicino a 7.
La fisiologia della Pubblica Amministrazione e il progetto di rinnovamento generazionale. La distribuzione del personale pubblico evidenzia un deciso spostamento in avanti dell’età media, passata da 44,2 anni nel 2001 a 48,7 nel 2012. C’è poi una forte concentrazione delle componenti più anziane nella fascia dirigenziale. Dei 182.000 dirigenti della Pa, quasi la metà (46,2%) ha più di 50 anni e poco più del 14% ha almeno 60 anni (circa 26.000). L’età media dei dirigenti è di 52,9 anni ed è di poco inferiore quella dei docenti e dei ricercatori universitari (51,2 anni). Si registra una maggiore incidenza della componente più anziana in comparti come i Ministeri (con un’età media di 51,9 anni e una quota di ultrasessantenni superiore al 10%), la Presidenza del Consiglio (51,8 anni in media), la carriera prefettizia (52,8 anni). L’attenzione al ricambio generazionale potrebbe essere il campo di sfida su cui misurare la qualità dell’intento riformistico, ma bisogna fare i conti con il fatto che quasi un dipendente su cinque ha al massimo assolto alla scuola dell’obbligo. Si tratta di oltre 600.000 dipendenti, di cui più della metà riconducibile al Servizio sanitario nazionale (circa 148.000), alla scuola (poco meno di 128.000) e alle Regioni e Autonomie locali (124.000), cui si possono aggiungere altri 24.000 impiegati nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome.
Il nodo politico dei fondi strutturali. La crisi ha interrotto in tutta Europa il processo di riduzione delle disparità regionali, che è l’obiettivo ultimo dei fondi di coesione. Fino al 2008 le disparità tra le economie regionali erano in diminuzione. Nel 2000 il Pil medio pro-capite nel 20% delle regioni più sviluppate era di circa 3,5 volte più alto di quello delle regioni meno sviluppate. Questa disparità è andata diminuendo fino a raggiungere quota 2,8 nel 2009, per poi ricominciare a salire. Nel 2000 il tasso di disoccupazione medio nel 20% delle regioni con maggiore difficoltà era del 17,6% a fronte del 3,4% per il 20% delle regioni a maggiore occupazione. Il rapporto tra i due valori era di 5,2: una distanza che si è andata assottigliando fino al 2007, per poi risalire fino al 5,3 del 2013, portandosi su un valore più alto di quello di partenza, a testimoniare che nel 2013 la disparità regionale, in riferimento all’occupazione, era maggiore di quella del 2000. Alla fine del periodo di programmazione 2007-2013 dei fondi strutturali, finalizzati alla convergenza fra regioni ricche e regioni in ritardo di sviluppo, le risorse effettivamente impiegate in Italia sono risultate pari al 54% di quelle disponibili. Nello scampolo di programmazione che ci resta (2014-2015) dovremmo portare a termine gli interventi per il restante 47% (quasi 14 miliardi di euro), con una capacità di spesa corrispondente a un miliardo al mese da qui alla fine: un obiettivo difficilmente raggiungibile.
Piccole imprese e ricercatori puntano molto sui fondi di ricerca europei, ma devono migliorare la progettazione. Nel nostro Paese si stima un investimento in ricerca di 17,5 miliardi di euro, corrispondenti all’1,2% del Pil: un valore al di sotto della media europea, che è dell’1,8%. Questo ha spinto negli anni i ricercatori e le imprese italiane a inseguire le cospicue fonti di finanziamento comunitarie. Moltissime le domande presentate nell’ambito del vecchio 7° Programma Quadro (11.474 idee di ricerca), ma pochi i progetti finanziati. Siamo dietro a Germania, Regno Unito e Francia, con un tasso di successo del 13,4%, al di sotto della media europea (17,9%). Tra le domande pervenute sullo Strumento per le Pmi di Horizon 2020, ora l’Italia gioca un ruolo di primo piano: ben 436 proposte italiane su 2.666 pervenute (il numero più alto tra i Paesi dell’Unione) per la prima call di Fase 1 e 70 domande su 580 per la prima call di Fase 2 (anche in questo caso il numero più alto di proposte pervenute alla Commissione rispetto agli altri Paesi europei). Se però consideriamo i risultati della prima valutazione (quella effettuata sulla Fase 1), portiamo a casa 20 progetti finanziati su 436 proposte presentate. Un tasso di successo molto basso (4,6%), malgrado siamo il terzo Paese per numero di imprese sovvenzionate, dietro a Regno Unito (26 con un tasso di successo dell’11,2%) e Spagna (39 con un tasso di successo del 9,3%).
5 Dicembre 2014