Roma, 2 dicembre 2011 – (Quel che resta del modello italiano) Identità plurime e interessi: gli italiani in recupero di serietà. In tempi difficili come quelli attuali, c’è una responsabilità collettiva pronta a entrare in gioco che, come spesso è accaduto nei passaggi chiave della storia nazionale, può essere decisiva nel fronteggiare le difficoltà. Il 57,3% degli italiani è disponibile a sacrificare il proprio tornaconto personale per l’interesse generale del Paese (anche se, di questi, il 45,7% limita la propria disponibilità ai soli casi eccezionali). L’identità italiana è per sua natura molteplice: il 46% dei cittadini si dichiara «italiano»; i «localisti» sono il 31,3% e si riconoscono nei Comuni, nelle regioni o nelle aree territoriali di appartenenza; i «cittadini del mondo», che si identificano nell’Europa o nel globale, sono il 15,4%; i «solipsisti», che si riconoscono solo in se stessi, sono il 7,3%. Ancora oggi i pilastri del nostro stare insieme fanno perno sul senso della famiglia, indicata dal 65,4% come elemento che accomuna gli italiani. Seguono il gusto per la qualità della vita (25%), la tradizione religiosa (21,5%), l’amore per il bello (20%). Cosa dovrebbe essere messo subito al centro dell’attenzione collettiva per costruire un’Italia più forte? Per più del 50% la riduzione delle diseguaglianze economiche. Moralità e onestà (55,5%) e rispetto per gli altri (53,5%) sono i valori guida indicati dalla maggioranza degli italiani. Ed emerge la stanchezza per le tante furbizie e violazioni delle regole. L’81% condanna duramente l’evasione fiscale: il 43% la reputa moralmente inaccettabile perché le tasse vanno pagate tutte e per intero, per il 38% chi non le paga arreca un danno ai cittadini onesti.
L’erosione del modello di sviluppo fondato sulla famiglia. Il modello italiano della famiglia polifunzionale inizia a mostrare segni di debolezza, con riferimento alla patrimonializzazione e alla solidarietà intergenerazionale. È vero che all’82% di famiglie italiane proprietarie della loro abitazione corrispondono percentuali molto più basse negli altri Paesi europei: nel Regno Unito si raggiunge il 70% circa, quasi il 60% in Francia e il 45% in Germania. L’attivo finanziario delle famiglie, al netto dei debiti, ammonta al 175% del Pil, quota maggiore che in Francia (131,5%), Germania (125,2%), Spagna (77,5%). Ma in valore assoluto c’è stata una erosione significativa di questo patrimonio, passato dai 3.042 miliardi di euro del 2006 a 2.722 miliardi (-10,5% in valori correnti, -16,3% in valori reali). Se all’inizio degli anni ’80 il reddito da lavoro, soprattutto dipendente, era il 70% del reddito familiare complessivo, nel 2010 tale quota si è ridotta fino al 53,6%.
La reputation all’estero meglio dell’autostima italiana. Siamo uno dei Paesi al mondo dove è più forte lo scarto tra quello che all’estero si pensa di noi e la reputazione che noi stessi attribuiamo all’Italia. Nella classifica della percezione internazionale ci collochiamo in 14ª posizione, prima di Regno Unito, Spagna, Francia e Stati Uniti. Perdiamo 2 posizioni rispetto al 2009, nulla di paragonabile al downgrading di Spagna, Irlanda e Grecia, che hanno perso rispettivamente 5, 6 e 7 posizioni. L’Italia si colloca in alto per lo stile di vita, l’ambiente, la relazionalità, mentre non primeggia per il livello avanzato dell’economia o per i fattori di sostegno allo sviluppo. Ma nella classifica della reputazione interna del proprio Paese, il nostro posizionamento è decisamente peggiore: eravamo al 26° posto su 33 Paesi esaminati nel 2009, scivoliamo fino al terz’ultimo posto su 37 Paesi nel 2011.
La rivincita della razionalità sull’emozione. Da una recente ricerca del Censis sulla popolazione con più di 50 anni emergono le basi profonde dell’identità: al primo posto l’esperienza del singolo (44,6%), seguita dall’eredità culturale familiare (43,2%) e dal carattere (42,3%), mentre raccolgono percentuali irrisorie categorie come la classe socio-economica (4,5%), l’appartenenza religiosa (3,7%), politica (1,1%), etnica (0,2%). Dopo anni di emotività confusa, il primato della ragione e dell’esperienza si traduce anche in un nuovo atteggiamento verso la politica. Gli eccessi del passato danno meno presa all’adesione per simpatia, fascinazione e carisma. Si chiede una classe dirigente di specchiata onestà sia in pubblico che in privato (59%), che i leader siano preparati (43%), illuminati da saggezza e consapevolezza (42,5%).
(Le cause del ristagno economico) Il deficit di classi dirigenti. Nel nostro Paese i vertici decisionali si sono ridotti di oltre 100.000 unità tra il 2007 e il 2010, passando da 553.000 a 450.000, cioè dal 2,4% al 2% del totale degli occupati. Sono una fascia sociale fortemente maschilizzata: le donne sono solo un quinto del totale e la loro incidenza tende a diminuire (dal 21,4% al 20,1%). Gli under 45 rappresentano meno del 40% (mentre sono quasi il 60% degli occupati totali). La quota dei laureati (36,4%) è poco più del doppio di quella riferita all’occupazione totale, ma decisamente inferiore a quella delle professioni specializzate. Poche donne, età media elevata, qualificazione formativa non eclatante: tre caratteristiche che, insieme alla contrazione della dimensione complessiva, indicano che la debolezza delle classi dirigenti è un fenomeno attribuibile non esclusivamente ai comportamenti dei vertici più elevati, ma che si estende all’intero strato sociale di riferimento, il cui isterilimento è più grave dell’inadeguatezza delle leadership apicali, perché riduce le stesse possibilità di ricambio.
La parabola declinante della produttività. Mentre nell’ultimo decennio gli occupati sono aumentati del 7,5%, il Pil è cresciuto in termini reali solo del 4%. Germania e Francia hanno registrato una crescita del Pil rispettivamente del 9,7% e dell’11,9%, che si è accompagnata a incrementi occupazionali rispettivamente del 3% e 5,1%. Anche un Paese come la Spagna, che nel decennio è stato protagonista di un boom occupazionale senza precedenti (+14,5%), ha visto aumentare il Pil in misura più sostenuta dell’Italia (+22,7%). Si è ridotta la nostra capacità di generare valore. La produttività oraria è andata progressivamente calando. Nel 2000, fatto 100 il livello di produttività medio europeo, l’Italia presentava un valore pari a 117, sceso nel 2010 a 101, molto lontano da quello dei nostri principali competitor: 133 la Francia, 124 la Germania, 108 la Spagna, 107 il Regno Unito. Tale dinamica è stata condizionata dalla qualità della crescita occupazionale degli ultimi anni, con un aumento dei lavori a bassa o nulla qualificazione a scapito di quelli più qualificati. Dei 309.000 nuovi posti di lavoro nell’ultimo quinquennio (saldo tra posti persi e creati), 297.000 hanno riguardato figure professionali addette alle vendite e 226.000 lavori non qualificati. Ai vertici della piramide sono diminuiti dell’11,5% gli imprenditori e le figure dirigenziali, mentre sono aumentati solo debolmente i liberi professionisti (+2,7%), le figure tecniche intermedie (+3,8%) e quelle amministrative (+0,4%). Nell’ultimo quinquennio il valore della produzione industriale si è ridotto in modo omogeneo (-10% circa) in tutti i principali Paesi europei (ad eccezione della Germania), ma è cresciuto quello dei servizi (+7,8% nella media Ue). A trainare è stata la crescita delle attività di intermediazione finanziaria e creditizia e dei servizi alle imprese: +10,5%. Ma in Italia il valore aggiunto dei servizi è invece aumentato pochissimo (+1,3%), con una flessione nel commercio e turismo (-2,4%) e una crescita inadeguata nel terziario avanzato, settore chiave dell’economia globale: +3,5% contro +6,4% in Francia, +10,9% nel Regno Unito, +11,2% in Spagna, +12,2% in Germania.
Un sistema formativo fuori centro. L’iscrizione alla scuola superiore è un fenomeno generalizzato, ma il tasso di diploma non riesce a superare la soglia del 75% dei 19enni. Se poi circa il 65% dei diplomati tenta ogni anno la carriera universitaria, tra il primo e il secondo anno di corso quasi il 20% abbandona gli studi. Il tasso di occupazione per i laureati è del 76,6%, all’ultimo posto tra i Paesi europei (media Ue 27: 82,3%). Con la crisi, l’appetibilità e la richiesta di laureati nel mercato del lavoro è addirittura diminuita. E difficilmente i giovani sono chiamati a coprire ruoli di responsabilità in tempi brevi, iniziando i percorsi professionali, nella maggioranza dei casi, al di sotto delle loro competenze: il 49,2% dei laureati 15-34enni e il 46,5% dei diplomati al primo impiego risultano sottoinquadrati.
Segnali di deterioramento nei servizi. I cittadini e le imprese si trovano a fare i conti con un sistema dei servizi che mostra evidenti segnali di criticità. Il trasporto pubblico locale soffriva già di una grave inadeguatezza dell’offerta. Tra il 2007 e il 2010 i passeggeri trasportati dai bus urbani sono aumentati dell’1,8%, mentre i posti/km offerti sono diminuiti del 2,5%; nelle ferrovie regionali e metropolitane +10,2% di passeggeri e -0,8% di posti. Ma nel 2011 il trasporto pubblico ha subito mancati trasferimenti in attuazione dell’accordo Stato-Regioni, con queste ultime costrette ad aumentare le tariffe e a ridurre i servizi. Nel triennio 2008-2011 la scuola ha subito una riduzione di circa 57.000 docenti, a fronte di 76.000 alunni in più. E le risorse per l’attuazione dei Piani di offerta formativa si sono ridotte dai 48 milioni di euro del 2010-2011 ai 12 milioni dell’anno scolastico in corso. Nel comparto sicurezza si risente del taglio ai fondi per la manutenzione dei veicoli della polizia e per il carburante, scesi da 80 a 40 milioni di euro. Nelle politiche sociali si assiste alla riduzione tra il 2009 e il 2011 del 65,6% del Fondo nazionale per le politiche sociali e all’azzeramento del Fondo nazionale per la non autosufficienza.
(Ridare forza al potenziale di crescita) Mettere a frutto la ricchezza familiare. Il rapporto tra la ricchezza netta delle famiglie e il reddito disponibile è elevato e in crescita: era pari a 7,4 volte nel 1999 ed è salito a 8,8 volte. Ma l’afflusso di nuove risorse è in forte restringimento, perché nell’ultimo quinquennio la propensione al risparmio delle famiglie si è ridotta. Nel 2010 il valore dei servizi resi alle famiglie dalle abitazioni di proprietà direttamente abitate ha raggiunto i 125 miliardi di euro, corrispondenti al 12,3% del reddito disponibile e all’8,1% del Pil. Cresce il valore dello stock di abitazioni possedute, stimato in oltre 4.800 miliardi di euro, con un incremento che sfiora il raddoppio (+93% nominale) nell’arco di un decennio. Una quota di questo incremento è attribuibile all’effetto dei prezzi, ma una quota rilevante è il risultato della scelta delle famiglie di destinare all’investimento in abitazioni una parte consistente dei propri risparmi. Ulteriori 1.000 miliardi di euro sono rappresentati dalle altre attività reali (oggetti di valore, terreni, fabbricati non residenziali e beni produttivi). Le attività finanziarie si aggirano intorno ai 3.600 miliardi di euro. La ricchezza netta complessivamente posseduta dalle famiglie è così cresciuta del 22% in termini reali nel decennio 1999-2009.
La forza dell’export per la ripresa industriale. In un quadro economico stagnante, le esportazioni sono una delle poche variabili in crescita: +15% nel 2010 e +16% nel primo semestre del 2011. Il saldo della bilancia commerciale nel manifatturiero è in attivo a metà del 2011 per oltre 10 miliardi di euro. A gennaio del 2011 l’indice del fatturato industriale è cresciuto in termini tendenziali del 5% in Italia e del 14% sull’estero, a luglio del 6% in Italia e del 10% sull’estero. Gli stessi distretti industriali registrano dalla metà del 2010 un incremento delle esportazioni: +16,3% tendenziale nel primo trimestre del 2011 e +12,9% nel secondo trimestre.
Allargare l’influenza geoeconomica italiana. La ripresa dalle pesanti conseguenze della crisi finanziaria può avvenire anche attraverso una progressiva riconfigurazione della mappa della presenza italiana all’estero. Oggi l’interscambio dell’Italia con i Paesi del Mediterraneo, dei Balcani e del Golfo ha una dimensione di 55 miliardi di euro, di cui le esportazioni sono pari a 30 miliardi. Ma anche Paesi come il Messico, il Perù, la Corea del Sud e la Malesia, la cui accessibilità è valutata in 10-16 ore di aereo, segnalano ulteriori opportunità che finora sono state sottostimate, viste le attese di crescita e il peso relativamente ridotto del nostro export in quelle zone.
L’eccellenza dell’economia di territorio: food e buon vivere. Sull’agricoltura la crisi ha avuto un impatto minore rispetto al resto del sistema economico. Tra il primo semestre del 2008 e il primo semestre del 2011 la flessione del valore aggiunto agricolo è limitata allo 0,9%, a fronte del -13,8% dell’industria e del -1,5% dei servizi. Tra il 2000 e il 2010 la dimensione media delle aziende è aumentata del 44,4% (da 5,5 a 7,9 ettari di superficie agricola utilizzata). C’è stata una forte contrazione nel numero delle microimprese (508.000 in meno quelle con una superficie inferiore a un ettaro: -50,2%), mentre è cresciuto il segmento delle imprese con più di 20 ettari (13.000 aziende in più: +10,7%). Ed è migliorata la produttività: le giornate di lavoro per azienda sono aumentate del 16,7% (da 141 a 165) e le giornate di lavoro per persona del 10,9% (da 64 a 71). L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari di qualità con denominazione protetta: 219, il 22,1% di tutti quelli riconosciuti in ambito comunitario. Ai marchi Dop e Igp associati a prodotti ortofrutticoli, formaggi, oli e preparazioni di carni, si affiancano le 518 denominazioni in ambito vinicolo (56 Docg e 339 Doc, per un totale di 215.000 ettari di vigne e 158.000 produttori, e 123 Igt, per 147.000 ettari e 159.000 produttori).
Valorizzare il contributo degli immigrati. Sono oltre 4,5 milioni gli stranieri che vivono in Italia, e le previsioni dicono che nei prossimi 10 anni arriveranno a 7 milioni. Quelli che lavorano regolarmente sono più di 2 milioni, impiegati prevalentemente nei servizi (59,4%), nell’industria (19,5%), nelle costruzioni (16,7%), in agricoltura (4,3%). I titolari di impresa nati all’estero mostrano, anche in questi anni di crisi, una vitalità sconosciuta ai nostri connazionali: dal 2009 al 2011 sono aumentati del 10,7%. Attualmente rappresentano il 10,7% dei piccoli imprenditori, ma a Prato sono il 38,9%, a Firenze il 21,5%, a Milano il 20%, a Trieste il 18,6%, a Roma il 16,9%. Particolarmente presenti in alcuni settori: le costruzioni (il 20,2% degli imprenditori attivi) e il commercio al dettaglio (18,1%). E le donne sono protagoniste: oltre 77.000 imprenditrici straniere (il 21,8% del totale).
Nuovi format relazionali. Oggi sono profondamente cambiate le tipologie familiari. Nell’ultimo decennio l’Italia ha perso 739.000 coppie coniugate con figli (-8%), sono aumentare di 274.000 unità le coppie non coniugate con figli, le famiglie monogenitoriali (345.000 in più: quasi +19%) e i single (quasi 2 milioni in più: +39%) Una pluralità di reti relazionali tiene insieme la società italiana. Le reti di prossimità: il 43,4% degli italiani definisce il vicinato una comunità in cui tutti si conoscono, si frequentano e si aiutano. Le reti dell’aiuto: svolge attività di volontariato oltre il 26% degli italiani (più di 13 milioni di persone, per oltre 351 milioni di ore mensili), di cui il 76% con regolarità, e più del 32% degli italiani (15 milioni) dichiara di aver fatto donazioni a organizzazioni. Le reti che creano servizi suppletivi rispetto al welfare tradizionale: quasi 6 milioni di persone sono coinvolte in forme di mutualità in sanità, con circa 10 milioni di beneficiari. Le reti di relazionalità di tipo conviviale: sono circa 11.700 le iniziative locali come sagre, feste, manifestazioni di vario tipo che si svolgono annualmente nel nostro Paese, e 7,1 milioni di persone tra 18 e 44 anni frequentano locali almeno un paio di volte la settimana. Le reti basate su piattaforme tecnologiche: i social network coinvolgono il 31% degli italiani, sono 16 milioni gli utenti di Facebook, 6 milioni utilizzano Skype (di cui 1,6 milioni tutti i giorni), 1,1 milioni Twitter.
2 Dicembre 2011