Roma, 2 dicembre 2011 – La sanità e il rischio di una sostenibilità solo finanziaria. Nel periodo 2001-2010 le Regioni con Piano di rientro hanno registrato un incremento della spesa del 19% contro il +26,9% del resto delle Regioni. Nel 2006-2011 hanno subito una riduzione della spesa in termini reali dello 0,6%, mentre le altre Regioni hanno avuto un aumento di oltre il 9%. Spicca il contenimento della spesa in Sicilia (-10% nel periodo 2006-2010), Abruzzo (-4,4%), Lazio (-3%) e Campania (-1,9%), che hanno siglato i rispettivi Piani di rientro nel 2007. Ma la cura a cui è sottoposto il Servizio sanitario non sta generando effetti positivi secondo i cittadini. Nell’ultimo biennio i dati dell’indagine Forum per la Ricerca Biomedica-Censis indicano che è solo l’11% a ritenere migliorato il servizio sanitario della propria regione, quasi il 29% ha registrato un peggioramento e circa il 60% una sostanziale stabilità. Il futuro della sanità per i cittadini è segnato da alcune paure: un’accentuazione delle differenze di qualità tra le sanità regionali (35,2%), che l’interferenza della politica danneggi la qualità della sanità (35%), che i disavanzi rendano indispensabili robusti tagli all’offerta (21,8%), che non si sviluppino le tipologie di strutture e servizi necessarie, come l’assistenza domiciliare territoriale (18%), che l’invecchiamento della popolazione e la diffusione delle patologie croniche producano un intasamento delle strutture e dei servizi (16,3%).
Salute, il genere conta. Le donne dichiarano condizioni di salute buone in quote sistematicamente inferiori ai maschi, mentre più spesso affermano di soffrire di due o più malattie croniche. La maggiore consuetudine tra donne e malattia ha a che vedere anche con l’impegno nel lavoro di cura, visto che i caregiver sono soprattutto donne. Nel caso dell’ictus si arriva al 75,7% dei casi, con importanti differenze di età, laddove i pazienti maschi hanno più spesso caregiver mogli (54,3%), mediamente più anziane, mentre le pazienti donne sono assistite per lo più dai figli (55,9%). Le caregiver mogli tendono a sobbarcarsi il carico assistenziale da sole, e ne pagano spesso il prezzo in termini di problemi psicologici e di salute, mentre le figlie trovano con maggiore frequenza sollievo e aiuto da una badante.
Comuni sull’orlo del default sociale. 6,7 miliardi di euro è il valore degli interventi e servizi sociali comunali, ai quali si aggiunge la compartecipazione degli utenti (circa 1 miliardo l’anno) e la quota a carico del Servizio sanitario (circa 1,1 miliardi l’anno), per un totale di spesa pari a poco più di 8,7 miliardi di euro, pari a circa il 10% del totale della spesa per tutte le politiche socio-assistenziali. Ma in tre anni i fondi sociali nazionali sono stati tagliati in misura consistente: il Fondo nazionale per le politiche sociali è passato dal 2008 al 2011 da 929,3 milioni di euro a meno di 220 milioni, il Fondo per la non autosufficienza nel 2011 non è stato finanziato, con un taglio netto di 400 milioni di euro. Chi subirà gli impatti dei tagli? In primo luogo l’utenza: oltre il 40% delle risorse per il sociale dei Comuni è impiegato per famiglie e minori, il 21,2% per gli anziani, una quota simile per i disabili e il 7% circa per la lotta alla povertà. Ma anche gli occupati nel sociale, perché il 48,5% della spesa comunale per i servizi sociali è impiegato per affidare i servizi all’esterno, a cooperative sociali e altri soggetti del terzo settore. Va ricordato che nel periodo 2006-2010 si è avuto un aumento di oltre 505.000 famiglie in condizione di deprivazione (+14,6%), che ora sono 4 milioni; è aumentato di oltre 1 milione (sono 4,1 milioni in totale) il numero di famiglie che hanno intaccato il patrimonio o contratto debiti; le coppie con figli in povertà assoluta sono aumentate di 115.000 nuclei (+37%) e sono ormai oltre 424.000; le monogenitoriali in povertà assoluta sono aumentate di 65.000 nuclei (+72,3%) e sono salite a 154.000; le famiglie numerose in povertà assoluta con 5 e più componenti sono aumentate di 43.000 unità (+41,6%) e sono ora 147.000.
I bisogni dei migranti e l’innovazione del welfare. È di quasi 3 miliardi di euro la spesa pubblica per la sanità ascrivibile a prestazioni erogate agli immigrati, pari a circa il 2,8% del totale della spesa sanitaria pubblica nel 2010. Tra il 2009 e il 2010 i migranti richiedenti sono cresciuti del 22%, più del doppio rispetto agli italiani (+9,7%). Sono gli asili nido e la scuola le prestazioni che i migranti (44,8%) chiedono in misura maggiore rispetto agli italiani (30,3%). L’Emilia Romagna è la regione in cui è più alta la quota di migranti che nel 2010 hanno fatto richiesta di prestazioni del welfare (il 18,6% del totale della popolazione Isee). Tra le province spiccano Bolzano (quasi il 41%), Mantova (35,6%), Modena (34,8%), Brescia (31,5%), Piacenza (30,7%), Arezzo (30,7%) e Parma (30,3%).
Dall’esclusione al disincanto: il disinvestimento dei giovani. Le donne italiane sono tra quelle che fanno figli più tardi (l’età media al parto di 31,1 anni rilevata in Italia rappresenta una delle età più avanzate in Europa al 2008), mentre il tasso di fertilità totale pone il Paese vicina al fondo (20ª posizione su 27) della graduatoria Ue. Non accennano ad arrestarsi la diminuzione dei matrimoni (-6,5% nel 2009 rispetto all’anno precedente) e l’aumento dell’età media in cui gli italiani lo contraggono per la prima volta (33 anni gli uomini e 29,9 le donne, circa 2 anni in più rispetto al 2000). L’indagine del Censis del 2011 sulla sregolazione delle pulsioni rileva un diffuso consenso tra i giovani per modelli di successo e di riuscita sociale avulsi dal merito e dalla cultura del lavoro. Ed è il 38,2% dei 15-30enni italiani a ritenere che l’università rappresenti un’opzione non attraente (il dato più alto in Europa). Tra giovani destinati a vivere un perpetuo presente, ad andare in crisi è lo stesso concetto di investimento sociale, se la società non è in grado di garantire ritorni a fronte di scelte e percorsi proiettati al futuro.
Perché non decolla la previdenza integrativa. Circa l’80% delle famiglie italiane manifesta l’intenzione di non aderire a schemi previdenziali integrativi in futuro, e in circa un caso su dieci non sanno proprio di cosa si tratti. Tra i capofamiglia occupati, una delle ragioni che viene indicata con maggiore frequenza (31,6%) è il costo in relazione allo stipendio disponibile, mentre la necessità di integrare la propria contribuzione previdenziale viene rifiutata dal momento che si pagano già i contributi obbligatori dal 30,4%. La rimozione del problema, o la dilazione a un futuro indefinito del momento in cui bisognerà affrontare la questione, rappresenta la motivazione citata con maggiore frequenza dai capofamiglia under 40 (il 39,7% contro la media del 20,4%).
2 Dicembre 2011