Roma, 7 dicembre 2012 – Un destino credibile per i piccoli comuni italiani. L’Italia rimane un Paese con un’accentuata distribuzione della popolazione sul territorio. Sul totale degli 8.093 comuni, ben 5.683 (il 70,2% del totale) hanno una popolazione inferiore a 5.000 abitanti. In questi comuni risiedono 10,3 milioni di abitanti, ossia il 17,1% del totale. I sindaci dei piccoli comuni amministrano una superficie molto ampia, corrispondente al 54,1% del territorio italiano. La dispersione insediativa e il frazionamento amministrativo, stante il quadro generale di ridimensionamento delle risorse pubbliche, comportano la difficoltà di mantenere nei territori a bassa densità le funzioni indispensabili per la vita delle comunità locali. Negli ultimi tre anni, quasi due terzi dei comuni con meno di 5.000 abitanti si sono trovati a fronteggiare la prospettiva della chiusura di una struttura pubblica (ospedale, scuola, ecc.).
L’edilizia scolastica tra problemi di obsolescenza e ricerca di nuove modalità di realizzazione. Degli oltre 36mila edifici scolastici censiti, il 30% risale a prima del 1960 e il 44% è stato costruito negli anni ’60 e ’70, quindi in una fase in cui temi come la sicurezza antisismica erano ancora poco presenti nella legislazione. Solo un quarto degli edifici (in Liguria appena il 13%, in Piemonte il 17%) è stato realizzato negli ultimi tre decenni. Anche in questo caso dobbiamo fare i conti con edifici e attrezzature pubbliche realizzati rapidamente e spesso in modo inadeguato. Il 33,5% delle scuole italiane non possiede un impianto idrico antincendio, il 50,7% non dispone di una scala interna di sicurezza, la dichiarazione di conformità dell’impianto elettrico manca in circa il 40% dei casi. Solo il 17,7% degli edifici è provvisto del certificato di prevenzione incendi, con divari regionali notevoli: è presente nel 36% delle scuole dell’Emilia Romagna e appena nel 4,6% di quelle della Sardegna.
Le politiche territoriali tra incertezze, commissariamenti e conflitti. Nel 2005 le opere contestate in Italia erano 190, nel 2011 il numero è salito a 331. Il 62,5% delle contestazioni riguarda impianti energetici (di cui il 47,1% rinnovabili), il 31,4% i rifiuti, il 4,8% le infrastrutture viarie. Il 51% delle contestazioni riguarda interventi non ancora autorizzati e solo allo stato di progetto. Le contestazioni popolari sono il 36% delle proteste, ma crescono le iniziative dei politici locali (29%) e delle istituzioni locali (23%). Se nel nostro Paese il conflitto contro le infrastrutture è diventato endemico, ciò è attribuibile a una generale mancanza di fiducia verso i soggetti decisori che si proietta immediatamente sulle opere stesse. L’Italia si posiziona al 43° posto in una graduatoria di 139 Paesi per livello di competitività. Siamo penalizzati soprattutto dalle variabili relative alla qualità istituzionale: in questo caso scivoliamo all’88° posto. L’Italia risulta debole sotto i profili della fiducia nell’operato della classe politica (127° posto), della trasparenza dei processi decisionali (135°), della presenza di favoritismi nelle decisioni pubbliche (119°) e dello spreco di risorse pubbliche (114°).
Dal Piano città all’agenda urbana. Il bando del Piano città lanciato dal Governo nell’ambito del decreto CresciItalia ha riscosso un notevole successo: hanno presentato proposte 432 comuni, di cui 180 con meno di 10mila abitanti, in gran parte localizzati nel Mezzogiorno, per un valore complessivo degli investimenti pari a poco meno di 18 miliardi di euro. Da tempo mancavano iniziative di livello nazionale che coinvolgessero le città nella riprogettazione di aree e quartieri caratterizzati da deficit rilevanti di servizi, infrastrutture, qualità dell’abitare. Ora si è messo al centro di ogni progetto un accordo (contratto di valorizzazione urbana) con il quale i soggetti pubblici e privati assumono impegni su risorse, tempi, valenze sociali e ambientali degli interventi.
Lo spazio urbano reinventato nelle nuove forme di manifestazione del dissenso. Lo spazio fisico facilita la trasformazione della manifestazione di protesta in evento. Ma non ci sono solo i casi dei blocchi di un’arteria o di una linea di trasporto, come quello della tangenziale di Torino da parte del movimento No Tav del febbraio 2012. Ci sono anche spazi abbandonati gestiti come contenitori culturali, come nel caso del Teatro Valle a Roma (occupazione e autogestione dal giugno 2011), della Torre Galfa a Milano o del Teatro Garibaldi a Palermo.
L’inaspettata stagione dei grattacieli italiani. Nelle maggiori città italiane sono 13 i progetti di torri con altezza superiore a 100 metri realizzati o in corso di realizzazione dal 2011 al 2015. Si tratta di interventi ideati e progettati prima della crisi e che giungono in gran parte a realizzazione nell’attuale scenario. A scegliere l’altezza non sono solo i grandi gruppi del credito e della finanza (Intesa San Paolo, Unicredit, Unipol), ma anche alcune amministrazioni pubbliche (Regione Piemonte). Da un lato gioca la visibilità internazionale, data anche dalla qualità architettonica dell’edificio che permette di accrescerne il valore sul mercato. Dall’altro lato (e questo vale in particolare per le amministrazioni pubbliche) la scelta di concentrare in un unico edificio i propri uffici mira alla razionalizzazione degli spazi distribuiti in sedi separate, con alti costi di gestione, connessione e manutenzione.
7 Dicembre 2012