Roma, 9 novembre 2022 – Un identikit delle persone con sindrome di Down e delle loro famiglie. Chi sono, come vivono, quali supporti hanno e soprattutto quali non hanno le persone con sindrome di Down e le loro famiglie? A queste e ad altre domande ha provato a rispondere l’indagine «Non uno di meno. La presa in carico delle persone con sindrome di Down per il perseguimento del miglior stato di salute e la loro piena integrazione sociale» realizzata dal Censis in collaborazione con Aipd (Associazione Italiana Persone Down) su un campione di 1.200 caregiver intervistati in tutta Italia. Quando viene meno la scuola, c’è spesso il nulla e non resta che stare a casa: è la realtà che vive quasi il 50% delle persone adulte con sindrome di Down, specialmente al Sud e nelle isole. Poco più del 13% ha un lavoro da dipendente o collaboratore, ma solo il 35,0% percepisce uno stipendio normale (e non minimo).
La percezione del livello di disabilità. Con l’aumentare dell’età della persona con sindrome di Down, aumenta anche il livello di gravità percepito. Oltre i 45 anni, la disabilità viene percepita come grave dal 20,9% degli intervistati e come molto grave dal 18,6%, con una netta impennata rispetto alla fascia d’età 25-44 anni, quando la disabilità è percepita grave dall’8,2% e molto grave appena dall’1,0%. «È un primo segno di come manchino servizi, supporti e in generale risposte soprattutto per gli adulti con sindrome di Down. E questo indica una strada alle istituzioni e a noi associazioni», commenta Anna Contardi, coordinatrice nazionale di Aipd. Non è un caso che l'impatto della sindrome di Down sul lavoro dei caregiver è significativo: risulta infatti che il 25,9% delle caregiver donne ha ridotto il lavoro (passando per esempio al part-time), mentre il 20,4% ha lasciato il lavoro o lo ha perso.
Il momento della diagnosi. Sempre più spesso la diagnosi viene comunicata ai genitori fin dalla gravidanza: ben il 46,4% dei genitori dei bambini tra 0 e 6 anni ha ricevuto la diagnosi prima della nascita del figlio, a fronte dell’appena 1,5% dei genitori che hanno figli tra i 25 e i 45 anni. «Merito del progresso della medicina e della diagnostica, ma anche un segno importante della volontà dei genitori di portare avanti la gravidanza anche dopo aver appreso la notizia, confermando una più positiva immagine sociale di questa condizione», ha commentato Ketty Vaccaro, Responsabile dell’Area Welfare e Salute del Censis. Ad aver aiutato i genitori ad affrontare positivamente la situazione nei primi tempi sono stati per lo più (circa il 40%) genitori, parenti e amici.
Il contesto di vita. La grande maggioranza delle persone con sindrome di Down abita nella propria casa (solo l’1,2% vive in una struttura residenziale). Col passare degli anni, aumenta il tempo trascorso in casa o nel centro diurno: fino a 14 anni, oltre il 90% frequenta la scuola, mentre tra 25 e 44 anni il 39,3% lavora, il 24,3% frequenta un centro diurno e il 27,6% sta a casa. La situazione si aggrava dopo i 44 anni, quando appena il 9,0% lavora, il 41,3% frequenta un centro diurno, ma ben il 44,8% non fa nulla e sta a casa. La tendenza a stare a casa è prevalente al Sud, dove riguarda ben il 33,0% del campione, a fronte dell’8,8% nelle regioni del Nord-Est. Per quanto riguarda la scuola, le difficoltà dell’inclusione vengono indicate soprattutto nella scarsa preparazione degli insegnanti curricolari (è questa la risposta prevalente, soprattutto quando si parla della fascia 15-24 anni), ma anche degli insegnanti di sostegno. È nelle scuole superiori, evidentemente, che la scuola inizia a mostrare maggiori carenze nell’offerta formativa e inclusiva per gli studenti con disabilità.
L’accesso ai servizi e la presa in carico. Poco meno della metà dei caregiver segnala la presenza nella propria Asl di appartenenza di un servizio pubblico o convenzionato dedicato alle persone con disabilità intellettiva e, tra questi, tutti lo utilizzano. È alta la percentuale di chi non è informato (28,8%) e il 23,7% dichiara che questa tipologia di servizio non è presente. Questo dato varia anche sulla base del livello di istruzione dei rispondenti: solo il 34,6% di chi ha il titolo di studio più basso (tendenzialmente si tratta anche dei caregiver più anziani) afferma che il servizio è presente, contro il 55,5% dei laureati. Anche la quota di chi afferma di non essere informato è più elevata tra chi ha un livello di istruzione basso (il 37,0% contro il 21,0%). La mancanza d'informazione condiziona evidentemente lo stesso utilizzo dei servizi. Solo il 26,0% del campione afferma che sul proprio territorio è stato realizzato un piano di presa in carico, il 24,0% dice che è stato predisposto ma è solo formale o ha una applicazione parziale, mentre per la metà dei casi il piano non è stato predisposto. Ancora una volta emergono differenze significative a livello territoriale: al Sud, il 73,2% dei caregiver afferma che il piano per la presa in carico della persona con sindrome di Down di cui si occupa non è mai stato realizzato.
La vita sociale e sentimentale. Si esprime per lo più in attività strutturate, mentre risulta molto difficoltosa nelle attività informali. Oltre il 50% non riceve mai amici e non va a casa di amici, oltre il 60% non esce mai con amici. Ma quasi il 90% partecipa ad attività sportive o simili. Il 24,0% ha una vita relazionale affettiva e il 2,5% ha una relazione sessuale, percentuale che sale a 4,3% tra i 25 e i 44 anni: segno che i tempi stanno cambiando e che ci stiamo lasciando alle spalle quella visione angelicata e asessuata delle persone con sindrome di Down che ha caratterizzato il passato. Riguardo al lavoro, il 13,3% ha un contratto da dipendente o collaboratore. Di questi, il 35% percepisce un compenso minimo, il 35% un compenso normale.
Difficoltà e bisogni delle famiglie. Le difficoltà principali incontrate dalla famiglia riguardano l’integrazione nella scuola e nella società (51%) e la fatica di orientarsi tra i servizi sociali e sanitari (48%). Molto significativi i dati sulle proposte d’intervento: la scelta ricade per lo più su progetti di educazione all’autonomia e alla vita indipendente (47,9%), sull’offerta di servizi per il tempo libero (42,3%) e su politiche d’inclusione lavorativa (35,5%) e presa in carico complessiva della persona (33,8%). Riguardo a ciò che dovrebbe fare la società per le persone con sindrome di Down, il 53,3% chiede di promuoverne l’autonomia e l’inserimento sociale e lavorativo, il 4,6% domanda di potenziare i servizi medici e riabilitativi. Per quanto riguarda il costo sociale della sindrome di Down, il costo medio annuo per paziente (Cmap) stimato risulta pari a 27.677 euro. Nello specifico, i costi diretti (legati alle spese direttamente monetizzabili sostenute per l’acquisto di beni e servizi) rappresentano il 15% dei costi complessivi, mentre i costi indiretti, a carico della collettività, rappresentano l’85% del totale: si tratta di costi legati agli oneri di assistenza che pesano sul caregiver, che sono stati monetizzati e risultano pari a 23.513 euro all’anno.
Questi sono alcuni dei risultati dell’indagine «Non uno di meno. La presa in carico delle persone con sindrome di Down per il perseguimento del miglior stato di salute e la loro piena integrazione sociale» realizzata dal Censis per Aipd, che è stato presentato oggi a Roma, presso il Cnel, da Gianfranco Salbini, Presidente Aipd, Anna Contardi, già Coordinatrice nazionale Aipd, Ketty Vaccaro, Responsabile Area Welfare e Salute del Censis, e discussi da Eugenio Barone, membro Ds Task Force e Professore associato di Biochimica all’Università Sapienza di Roma, Franco Deriu dell’Inapp, Luca Trapanese, Assessore alle Politiche sociali del Comune di Napoli, Salvatore Nocera, avvocato, esperto in legislazione scolastica, Walter D’Avack della Rai-Pubblica utilità.
9 Novembre 2022