Un corollario della crisi dell’immaginario collettivo, descritta dal Rapporto sulla comunicazione dello scorso anno, è la fine dello star system, almeno per come lo avevamo conosciuto, con riferimento ai divi come figure simboliche – per quanto in carne e ossa – in cui potersi immedesimare. In un rito collettivo ampiamente partecipato, il divismo forniva a tutti un ricco pantheon di idoli ed “eroi” sul quale incardinare un congegno proiettivo. I divi moderni avevano incarnato la potenza del mito arcaico, interpretando laicamente il bisogno di fede del tempo presente, mettendo in moto lo slancio di identificazione di individui e interi gruppi sociali verso un modello di vita vagheggiato, una esistenza migliore e desiderabile, all’inseguimento di sogni e desideri necessari per emanciparsi dai vincoli prosaici della vita comune di un popolo che, nel suo insieme, di certo non è mai tutto composto di santi, eroi, poeti e navigatori.
Oggi la moltitudine dei soggetti, novelli Prometeo dell’era digitale, ha trascinato quel pantheon giù dall’Olimpo nel disincanto del mondo. Uno vale un divo: siamo tutti divi. O nessuno, in realtà, lo è più. La metà degli italiani (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (e nel caso dei giovani under 30 la percentuale sale al 56,1%). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia fondamentale per essere una celebrità (la pensa così il 42,4% dei giovani). Mentre un quarto (il 24,6%) sostiene che semplicemente il divismo non esiste più. E comunque appena un italiano su 10 prende a modello i divi come miti a cui ispirarsi (il 9,9%) (tabb. 9-10).
Il divismo aveva impregnato gran parte della cultura di massa del ’900, legato al medium per eccellenza di questa cultura: il cinema, codificato dai grandi studios americani e dalle majors nell’epoca d’oro di Hollywood. Un’“aristocrazia” di divi era prosperata sulla nascente cultura pop nella forma di un jet set nazionale e internazionale di personaggi venerati e inavvicinabili: star hollywoodiane, vedettes del teatro e registi osannati dalla critica, stilisti e cantanti lirici, toreador e mannequin, pugili e ciclisti, pittori e scrittori, playboy e viveur, prestigiosi capi di Stato e carismatici leader politici, muse incantevoli. Gli ambienti in cui si muovevano erano scintillanti e patinati: il tempio di Cinecittà e la mecca di via Veneto, le feste chic e memorabili tra Roma, New York e Parigi, le vacanze a Capri, a Cortina e in Costa Azzurra. I fan praticavano il culto delle grandi star celebrandone la fama.
L’effetto finale della fine dello star system è la rottura di un fisiologico meccanismo sociale di tipo proiettivo, aspirazionale e imitativo, che in passato risultava utile e vitale nella società che cresceva. Se si accorcia l’arco proiettivo verso i divi, grazie ai media digitali prende forma un nuovo frame pre-politico che alla fine sviluppa il senso comune dentro il sistema pulviscolare degli account personali dei social network.
Questa è la fondamentale trasformazione che lo star system ha conosciuto passando dall’era della celluloide all’epoca della disintermediazione digitale. Non sono i personaggi famosi ad indicare, in quanto divi, orizzonti di vita alle persone comuni, che permettano a chi li imita di elevarsi a un livello sociale ed economico superiore. Sono le celebrità a trasformare in spettacolo la visione del mondo del loro pubblico. È in questa dialettica tra seduzione e tradimento che il divo finisce per scomparire.