Il welfare aziendale non può ridursi a moltiplicatore di generici e indifferenziati benefit, ma deve diventare una piattaforma:
- di ridistribuzione intertemporale di risorse per innalzare la copertura rispetto ai grandi rischi sociali, dalla malattia alla vecchiaia, all’inabilità;
- per alleviare la pressione quotidiana sui lavoratori, specialmente le donne, che sono le più esposte nel care verso i familiari vulnerabili (dai figli ai parenti più fragili o non autosufficienti).
Per assolvere a questo ruolo, però, il welfare aziendale deve misurarsi in primo luogo con le caratteristiche vecchie e nuove della struttura produttiva e occupazionale del nostro Paese, in piena evoluzione anche a seguito degli effetti della lunga e intensa crisi, e con le dinamiche retributive che condizionano pesantemente il punto di vista dei lavoratori.
Gli aspetti da tenere in conto sono i seguenti.
- L’antica e mai superata prevalenza di micro e piccole imprese. Le micro imprese fino a 9 addetti sono il 94,7% del totale delle imprese italiane, malgrado la riduzione di circa 40.000 unità tra il 2008 e il 2016. Le piccole imprese sono il 4,6%, con una crescita di 62.000 unità nello stesso periodo. Sono aumentate anche le medie imprese (di oltre 2.000 unità) e le grandi imprese (di oltre 4.000 unità). In termini di addetti, in 20 anni è aumentata la quota nelle grandi imprese dal 20% al 24%, ma il 40% degli addetti è ancora occupato nelle micro imprese e il 21% nelle piccole imprese. Di fatto, il 61% degli occupati lavora in micro e piccole imprese, ed è questa un grande sfida per ogni meccanismo di protezione sociale per i lavoratori.
- La persistente crescita del terziario, mentre il settore industriale decresce. Nel periodo 2011-2016 l’industria ha perso oltre 116.000 imprese attive (-8,4%) e oltre 583.000 addetti (-9,8%). Nello stesso periodo il terziario ha registrato un incremento di oltre 73.000 imprese attive (+2,4%) e di circa 569.000 addetti (+5,9%). Al di là di fattori congiunturali, il lavoro tende sempre più a concentrarsi nelle imprese dei servizi, ed anche questa è una sfida epocale per la protezione sociale, inclusa quella del welfare aziendale.
- Più lavoro cognitivo, spesso serializzato. Con la terziarizzazione cresce la quota di lavoratori che svolge attività cognitive, anche se sempre più spesso serializzate dalle nuove tecnologie. Tende a ridursi la quota di lavoratori che svolgono funzioni operaie più tradizionali, con la parallela crescita di lavoratori manuali nei servizi particolarmente penalizzati per redditi e condizioni di lavoro. Aumentano le tipologie contrattuali sempre meno stabili, cioè gli occupati a tempo determinato e a tempo parziale.
- Più donne, più single, più anziani, più stranieri: il nuovo profilo dei lavoratori italiani. A mutare in 10 anni è stata soprattutto la composizione di genere e sociodemografica dei lavoratori, che comporta una profonda ridefinizione del sistema di bisogni sociali. Nel mercato del lavoro nel periodo 2006-2016 si è avuto un incremento di donne occupate (+5,8%), single (+43,9%), stranieri (+84,8%) e lavoratori con età media più alta (la quota di lavoratori con 55 anni e più è passata dal 10,9% al 19,4%) (tab. 7). Una diversity con fabbisogni sociali molto articolati che richiede una gamma di offerta di servizi e prestazioni ampia e altamente differenziata.
- La “fame” arretrata di reddito di operai, lavoratori esecutivi e manuali. Il welfare aziendale ha ancora lo stigma di un meccanismo puramente premiale o comunque più rivolto a dirigenti, quadri, lavoratori a più alto reddito. D’altro canto, il mercato del lavoro è attraversato da differenze retributive rilevanti e più ancora da un pericoloso schiacciamento in basso dei redditi dei lavori operai, esecutivi, manuali. Allora non sorprende che ci sia un balzo in alto della povertà assoluta tra le persone che lavorano: tra il 2008 e il 2016 le famiglie operaie e di lavoratori assimilati in condizione di povertà assoluta sono praticamente triplicate come incidenza (dal 4,5% al 12,6%) e sono ormai quasi 600.000 (+178% tra il 2008 e il 2016). Sono persone che dispongono fino a un massimo di 680 euro al mese se single, e di un reddito familiare al massimo pari a 1.400 euro al mese se in coppia con 2 figli minori. Il rischio è che sul welfare aziendale si scarichino aspettative di adeguamento dei redditi che, ovviamente, possono trovare in esso solo una soluzione parziale e indiretta. Inoltre, è fondamentale che nella percezione collettiva e nella pratica concreta il welfare aziendale sia percepito e vissuto come il welfare di tutti i lavoratori e non come un benefit premiale incapace di dare supporto a chi più ne ha bisogno.
Alla luce degli aspetti citati diventa fondamentale:
- come soluzione alla proliferazione di micro e piccole aziende, uno sviluppo potente di meccanismi riaggregativi in grado di andare oltre la pura dimensione delle singole aziende. Il welfare aziendale deve andare “oltre se stesso”, provare a diventare una componente del welfare territoriale, di comunità, contemperando così la sostenibilità economica con il contributo alla creazione di valore economico e sociale a livello locale;
- la riaggregazione può essere territoriale o anche, utilizzando i più contemporanei meccanismi connettivi, interaziendale, perché i meccanismi di riaccorpamento della domanda innalzano il potere d’acquisto delle risorse messe in campo da lavoratori e aziende, e favoriscono la diffusione delle best practice, migliorando la qualità complessiva dei servizi;
- non fare del welfare aziendale la risposta alla “fame” arretrata di reddito così forte nei livelli operai, esecutivi e manuali, ma farlo operare come un fattore integrativo delle retribuzioni, altamente utile purché sia percepito come di tutti i lavoratori e non come un puro specchio delle differenze retributive, sganciato dai reali fabbisogni di tutela.