La fine del lavoro non è per oggi: più lavoro, ma non ovunque
I profeti della fine del lavoro dovranno ancora aspettare: tra il 1997 e il 2017 le imprese italiane hanno generato un +10,4% di occupati con un +1% nel tasso di occupazione. Nel periodo citato sono stati creati 2.165.000 occupati aggiuntivi, e tenuto conto che nella grande crisi 2008-2013 sono stati bruciati ben 900.000 posti di lavoro, vuol dire che nel 2013-2017 sono stati creati ben 832.000 nuovi posti di lavoro. Tuttavia, l’Italia crea lavoro con alcune criticità:
- ne crea meno che negli altri Paesi: nel 2007-2017 il numero di occupati è diminuito in Italia del -0,3% contro un trend molto positivo in Germania (+8,2%), Francia (+4,1%), Regno Unito (+7,6%) e a una media europea del +2,5%;
- nel Mezzogiorno il tasso di occupazione è al 34,3% (-2,9% di differenza percentuale rispetto al 2007), nel Nord-Ovest al 49,7%,
(-1,1%), nel Nord-Est al 51,1%, (con -1,3% rispetto al 2007) e al Centro con 47,4% (-0,4%). Il Sud ha meno lavoro e ne ha distrutto di più (tab. 1).
L’Italia crea lavoro, ma meno che in altri Paesi e in modo altamente differenziato tra le aree geografiche, dunque.
Giovani camerieri e anziani dipendenti pubblici: la polarizzazione settoriale per età
Altra criticità decisiva riguarda l’età dei lavoratori:
- nel 1997 i 15-34enni erano il 39,6% del totale degli occupati, nel 2017 il 22,1%, con una riduzione del -17,5%;
- i 55enni e più erano il 10,8% dei lavoratori nel 1997, nel 2017 sono il 20,4%, con un balzo di +9,6 punti percentuali (tab. 2).
In venti anni sul totale degli occupati si è dimezzata la quota di lavoratori 15-34enni ed è raddoppiata quella di chi ha più di 55 anni. Il futuro sarà ancora più marcato, poiché le previsioni relative al 2027 dicono che i lavoratori 15-34enni saranno il 19,7% del totale degli occupati (-9,2% nel numero rispetto al 2017), mentre quelli con più di 55 anni saranno il 31,6% del totale degli occupati in Italia (+57,5% come numero rispetto al 2017).
Un altro fenomeno chiave è la polarizzazione settoriale per età poiché:
- i lavoratori anziani sono più presenti nella Pubblica amministrazione, difesa, assicurazioni sociali obbligatorie (il 31,6%, +13,5% rispetto al 2011), istruzione, sanità ed altri servizi sociali (il 29,6%, +7,4%), agricoltura, silvicoltura e pesca (il 27,3%, +3,4%), trasporto e magazzinaggio (il 23,1%, +9%), attività finanziarie e assicurative (il 22%, +8,4%), altri servizi collettivi e personali (il 20,9%, +6,5%);
- i lavoratori millennial sono collocati più nel settore alberghi e ristoranti (il 39%, -1,3% dal 2011), commercio (il 27,7%, -2,7%), altri servizi collettivi e personali (il 23,8%, -5%), servizi di informazioni e comunicazione (il 23,7%, -6,8%), attività immobiliari, servizi alle imprese e altre attività professionali e imprenditoriali (il 22,7%, -6,6%), industria (il 22,3%, -4,4%) e costruzioni (il 22,3%, - 9,4%).
In estrema sintesi, l’Italia è e rischia di diventare sempre più un Paese di anziani che fanno i dipendenti pubblici e di giovani che lavorano come camerieri, lavapiatti e nella migliore delle ipotesi maître di sala o cuochi.
Il boom delle disuguaglianze retributive nel lavoro dipendente
Altra criticità chiave nel lavoro è quella delle disuguaglianze reddituali altamente visibili all’interno dello stesso lavoro dipendente tra operai, impiegati e dirigenti. Infatti:
- rispetto al 1998, nel 2016 il reddito individuale di un operaio è diminuito del 2,7%, mentre quello di un dirigente è aumentato del 9,4%. Il reddito da lavoro dipendente di un operaio era il 45,9% di quello di un dirigente o quadro direttivo nel 1998 ed è il 40,9% nel 2016;
- il reddito individuale degli impiegati rispetto al 1998 è diminuito del 2,6%: era il 59,9% di quello di un dirigente e quadro direttivo nel 1998 ed il 53,4% nel 2016 (fig. 1 e tab. 3).
In venti anni nell’ambito del lavoro dipendente in Italia si è assistito ad una ridistribuzione interna del reddito, con una riduzione di quello di operai e impiegati e un aumento di quello delle posizioni apicali.