Roma, 3 dicembre 2010 – Il volontariato come pilastro della comunità. Più del 26% degli italiani dichiara di svolgere un’attività di volontariato. La scelta di fare volontariato è molto più radicata tra i giovani (più del 34%), rimane elevata tra i 30-44enni (più del 29%), per poi calare al 23% tra i 45-64enni e al 20,3% tra gli anziani. È all’interno di realtà organizzate che circa tre quarti dei volontari svolgono il proprio impegno, e di questi la maggioranza (54,5%) lo fa all’interno di una specifica organizzazione, mentre poco meno del 10% lo fa in più di una struttura. Riguardo alle motivazioni, oltre il 38% dei volontari dichiara di svolgere attività di volontariato perché vuole fare qualcosa per gli altri, mentre il 27,3% richiama ragioni etiche, ideali. Un plebiscitario 97% valuta positivamente l’attività di volontariato in cui è impegnato: il 59% perché fa una cosa alla quale crede nel profondo ed è gratificante, il 38% perché è convinto di incidere positivamente sulla vita delle persone, in particolare quelle che hanno più bisogno. Ospedali, case di cura, strutture sanitarie (69%), case di riposo, comunità alloggio, presidi socio-assistenziali di vario tipo (54,3%), poi le varie forme di assistenza a domicilio per anziani e non autosufficienti (39,9%): sono questi i tre settori in cui i cittadini constatano una maggiore presenza di volontari nelle comunità in cui vivono.
Tutele sociali e crisi, oltre le buone risposte di breve periodo. L’efficacia degli ammortizzatori disponibili di fronte all’emergenza reddituale legata alla crisi occupazionale non attenua il fatto che la crisi sta ampliando, al di là del breve periodo, la platea dei soggetti vulnerabili a forme di disagio sociale. Il 62% degli italiani esprime un giudizio negativo sugli strumenti di tutela e supporto per i disoccupati, quota che risulta nettamente superiore al dato medio europeo (pari al 45%) e lontana dalle valutazioni espresse dai cittadini di altri grandi Paesi come la Francia, dove il giudizio negativo è espresso dal 29% dei cittadini, il Regno Unito (28%), la Germania (39%) e i Paesi Bassi (13%). Anche sul terreno della lotta alla povertà le valutazioni degli italiani non sono positive. Il 59% dichiara che gli interventi finalizzati a migliorare la condizione dei poveri non stanno avendo un particolare impatto, il 21% sostiene che addirittura stanno peggiorando le cose e solo il 10% parla di un impatto positivo. Nella media europea il 64% dei cittadini ritiene neutro l’impatto delle politiche contro la povertà, il 10% negativo e il 18% positivo. Molto più alte le quote di cittadini che valutano positivamente gli impatti delle politiche contro la povertà in Svezia (45%), Paesi Bassi (26%), Regno Unito (18%) e Germania (15%).
Né pensionati, né occupati: la trappola dei lavoratori anziani. L’età media di effettivo pensionamento nel nostro Paese è di 60,8 anni per gli uomini e 60,7 anni per le donne. Sono dati che (fatta salva la Francia, dove l’età media di uscita dal mercato del lavoro è di 59,4 anni per gli uomini e 59,1 anni per le donne) rendono il nostro Paese quello con la più bassa età di pensionamento effettivo rispetto alla gran parte dei Paesi europei. Attualmente ben il 52% degli italiani è convinto che ci sono molte persone che vanno in pensione troppo presto. Questo dato è superiore a quello medio europeo (pari al 43%) e a quello di Paesi come Regno Unito (32%), Olanda (34%) e Germania (42%). Nel nostro Paese lavorare più a lungo sta diventando sempre più importante anche per sostenere il proprio tenore di vita. Il 28% degli italiani è molto preoccupato e il 40% abbastanza preoccupato per il fatto che il proprio reddito in vecchiaia sarà insufficiente a garantire un livello dignitoso di vita. I due dati sono superiori ai valori medi europei, pari rispettivamente al 20% per le persone molto preoccupate e al 34% per quelle abbastanza preoccupate. Il 21% degli italiani di età superiore a 18 anni è convinto che sarà costretto ad andare in pensione più tardi rispetto all’età di pensionamento pianificata, il 20% pensa che dovrà provare a risparmiare di più per quando sarà in pensione, il 19% ritiene che la propria pensione sarà d’importo inferiore a quanto si aspetta.
Le nuove frontiere del consumo farmaceutico. La dinamica di lungo periodo dei consumi farmaceutici mostra un costante aumento dei consumi complessivi in termini di dosi e confezioni, a fronte di un aumento molto contenuto della spesa totale. Quella a carico del Ssn (convenzionata) e quella privata (a carico dei cittadini) hanno andamenti di segno opposto: dal 2001 la prima è rimasta sostanzialmente stabile (quasi 11,2 miliardi di euro nel 2009), mentre la spesa privata fa osservare un aumento continuo (fino a superare i 7,9 miliardi di euro). Nell’anno in cui la crisi ha fatto sentire i suoi effetti sulle famiglie italiane, circa la metà ha dichiarato che la spesa per la salute è molto (11,4%), abbastanza (28,2%) o un po’ (8,3%) aumentata, mentre il 53,3% ha indicato di aver intensificato nel 2009 il ricorso ai farmaci generici con l’obiettivo di risparmiare.
L’onda lunga della comunicazione sulla salute. Il boom dell’informazione sanitaria avvenuto dagli anni ’90 in poi mostra oggi gli effetti positivi della diffusione nel corpo sociale di comportamenti preventivi e stili di vita più corretti. Allo stesso tempo si osservano alcuni effetti perversi che la spettacolarizzazione dell’informazione sanitaria produce sulle conoscenze individuali. Secondo un’indagine del Censis, il 50,2% degli italiani è convinto che non sia vero che le persone con sindrome di Down abbiano pressoché sempre un ritardo mentale, e addirittura il 73% pensa che le persone autistiche siano quasi sempre geniali nella matematica, nella musica o nell’arte. Le narrazioni mediatiche in cui prevale la spettacolarizzazione di singole vicende, statisticamente rarissime, finiscono per sedimentarsi sotto forma di pseudo-nozioni per ampi settori della popolazione. Dell’ictus, ad esempio, pur essendo la terza causa di morte in Italia, solo meno della metà degli italiani sa che colpisce il cervello.
La disabilità invisibile. La dimensione sociale prevalente della disabilità è l’invisibilità, o quanto meno una visibilità distorta, che si allinea con il crescente arretramento delle politiche per le persone disabili. Secondo la recente stima del Censis, si tratta complessivamente di 4,1 milioni di persone, pari al 6,7% della popolazione, con cui gli italiani mostrano di relazionarsi con difficoltà. La maggioranza degli italiani (il 66%) ritiene che le persone con disabilità intellettiva siano accettate solo a parole, ma che nei fatti vengano spesso emarginate, mentre il 23,3% condivide un’opinione più negativa: la disabilità mentale fa paura e queste persone si ritrovano quasi sempre discriminate e sole. Si tende poi a sovrastimare il peso della disabilità motoria (il 62,9% pensa anzitutto a questo tipo di limitazione) e a non includere in questo concetto, o a farlo solo in parte, la non autosufficienza degli anziani, che pure rappresenta un tema che pesa nella vita quotidiana di moltissime famiglie nel nostro Paese: il 29,4% pensa che la disabilità sia equamente distribuita tra i bambini e i giovani, gli adulti e la popolazione anziana.
3 Dicembre 2010