1. Un decennio volge al termine: un tempo segnato dal rincorrersi di avvisi su una imminente frattura sociale, sul perdurare della crisi dell’occupazione e dei redditi, sulla perdita di tenuta delle istituzioni nazionali e locali, sulla fragilità del territorio e delle sue infrastrutture. Ma abbiamo visto in questi mesi l’accentuarsi di reazioni positive, di contrapposizione a una prospettiva di declino. Si chiude un decennio che, negli spazi vuoti d’iniziativa e di responsabilità collettive, lascia aperta la possibilità di rinnovamento e di nuovo sviluppo.
2. La corrosione delle giunture e delle guarnizioni della società è sotto lo sguardo di tutti. Viene da chiedersi se sia sufficiente a delimitare i fenomeni sociali e le trasformazioni antropologiche di questi anni il ribadire che è nella storia e nella continuità del nostro corpo sociale la transizione tra periodi di crisi e ripartenze, con un cinico adeguamento alla navigazione inerziale, senza inquietudine e senza linea d’orizzonte. E c’è da domandarsi se si affermino o meno processi e attori sottotraccia rispetto allo spettro più visibile e, nel caso, se siano ai margini o nell’impalcatura di un futuro modello di sviluppo italiano.
3. Facendo affidamento allo svolgersi naturale del processo, la società italiana ha guardato a lungo inerte al cedimento delle sue strutture portanti. Dove inerzia e cedimento richiamano la questione della perdita essenziale del senso e del verso dello sviluppo e del futuro. A questo cedimento, puntellando se stesso, il nostro Paese sta cercando una soluzione e, al volgere del nuovo decennio, vive e sente uno spirito nuovo e “sé in sé rigira”.
4. L’anno che si va chiudendo segna, infatti, l’inizio di un diverso modo di osservare l’orizzonte italiano del futuro e rafforza l’impressione che l’adeguamento verso il basso non può proseguire senza limiti, senza porre argini o individuare punti di sostegno per frenare lo sgretolamento, per provare ad ancorarsi e tentare un cambio di direzione.
5. Il franare in giù è stato in parte interrotto grazie alla ricostruzione o al rattoppo di alcune piastre di sostegno cui ancorare non una nuova fase di crescita, ma almeno un cambio di rotta rispetto alla direzione attuale.
Una prima piastra è nella dimensione manifatturiera, industriale, del nostro sistema produttivo e nella sua capacità di innovare e, almeno in parte, di trainare la crescita. Le nubi nere all’orizzonte dell’economia mondiale e le ipotesi di una nuova guerra dei dazi e delle valute, subdola e silenziosa, alimentano a ragione tanti interrogativi sulla capacità di resistenza delle industrie italiane, ma non c’è dubbio che nell’arena internazionale il nostro Paese, con le sue fabbriche, esprime ancora un’idea forte di qualità e di capacità competitiva.
Una seconda forma di piastra di ancoraggio per limitare il trascinamento verso il basso è nel consolidamento strutturale in alcune aree geografiche vaste del nostro Paese: dal nuovo triangolo industriale tra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna alla fascia dorsale lungo l’Adriatico. Con un tasso di crescita del prodotto interno e dei consumi paragonabile alle migliori regioni europee, in zone puntuali ma significative, la riaffermazione della base geografica dello sviluppo, anche quando è a scapito di altre parti del Paese, segnala che l’appartenenza territoriale ridona vigore alla crescita.
La terza piastra è la nuova sensibilità ai problemi del clima, della qualità ambientale e della tutela del territorio, anche in risposta a stimoli non solo interni. Restano certo irrisolti i nostri problemi di fragilità strutturale dell’ambiente naturale e costruito, ma è fuor di dubbio che la speranza di provare, almeno in parte, a metterci mano muove a una spontanea e diffusa partecipazione. L’economia circolare è ancora un tema buono per convegni e dibattiti pubblici, ma la mobilitazione sull’ambiente come potenziale sostegno appare un processo strutturale, tanto economico quanto sociale.
Su una quarta ipotesi di ancoraggio la chiave interpretativa appare più incerta: la rimessa in circuito del risparmio privato. La liquidità disponibile delle famiglie ha permesso una sostanziale tenuta sociale, a fronte di risorse pubbliche sempre meno adeguate e meno efficienti. In parte per ragioni politiche, con l’attacco alla ricchezza e al contante e la tracciatura delle spese individuali, in parte per la percezione d’insicurezza, la piastra del risparmio sembra restare una polizza assicurativa più che una opportunità. Resta però un sistema di ancoraggio, nell’attesa che le risorse finanziarie rientrino in qualche modo nel sistema economico e produttivo.
Un’ultima piastra di sostegno la si vede nella dimensione europea. Sempre meno si addossano ai processi di convergenza europea le responsabilità delle difficoltà nazionali e locali, e sempre più si alimenta il dibattito sulla capacità delle strutture comunitarie di rinnovare contenuti e mezzi dello sviluppo.
6. A fianco e insieme ad alcune piastre di consolidamento si vede anche una multiforme messa in opera di infrastrutture di contenimento dei fenomeni erosivi generati dalla difesa solitaria dei singoli, grazie a processi temporanei e tempestivi di appoggio. Si tratta, rimandando a una immagine tipica del paesaggio ambientale e culturale del nostro Paese, di tanti muretti in pietra a secco.
Sono esempi di muretti a secco la fitta rete di incubatori e acceleratori di imprese innovative nei quali diverse migliaia di giovani tentano una esperienza imprenditoriale, in un contesto finanziario e amministrativo generalmente povero, dove però una buona intuizione può diventare una buona impresa.
Sono esempi di muretti a secco i tanti festival, sagre, eventi culturali di ogni genere e scopo, senza che vi sia in pratica città o borgo che non ne progetti o organizzi uno. Sono eventi che valgono come affermazione di identità e di comunità locale, una occasione economica per l’attrazione turistica, un luogo di elaborazione di prospettive e di confronto intellettuale, prosceni per la tecnologia, la ricerca, l’innovazione, l’educazione.
Sono esempi di muretti a secco alcuni segmenti produttivi capaci di resistere alla crisi e rilanciarsi affermando un primato mondiale per design, tecniche costruttive, sapienza artigianale applicata su scala industriale, in nicchie dell’export mondiale nella produzione di super yacht, di vernici e materiali innovativi per l’edilizia, di componentistica minuta ma ad alta tecnologia per le automobili o per l’aerospazio, solo per citarne alcuni.
7. Arrivare a immaginare che nella reazione alla regressione la dimensione strutturale – le piastre – o quella di provvisorio sostegno – i muretti – possono diventare le basi di un ritorno a una dimensione sociale e collettiva è un errore di prospettiva. Il decennio ha lasciato indietro, senza risolverlo, l’interrogativo su come si possano dare tempi, luoghi e strumenti di bilanciamento tra risposte ai bisogni di base e nuova alimentazione delle ambizioni individuali.
8. Nel Rapporto dello scorso anno abbiamo scritto che siamo immersi, da tempo, nel passaggio da una logica di sistema, inteso come un insieme di elementi interconnessi e interagenti che evolve con leggi generali, a una logica di coabitazione in habitat funzionali, ecosistemi nei quali una moltitudine di attori individuali costruisce relazioni e stabilisce regole di convivenza sfuggendo a dinamiche complessive.
9. Ora osserviamo tra le parti in gioco i primi segnali di un tentativo di rinegoziazione dei meccanismi e degli interessi individuali e collettivi. L’orientamento al nuovo è oggi, oltre che nella reazione allo scivolamento, anche nell’apertura di una stagione di profondo riassestamento e radicale ricalibratura dei poteri, dei ruoli, delle leve decisionali, della logica di senso dei nuovi attori sociali coltivati e cresciuti in un diverso ambiente e con diverse relazioni. Vedremo se la fase negoziale che si va aprendo comporterà anche una logica di nuova confederalità della rappresentanza o se, al contrario, è passato il tempo dei corpi intermedi.
10. Un decennio si conclude, ma sul piano politico non può dirsi compiuto. Viviamo, in questo senso, in un Paese privato di un passaggio in avanti a lungo promesso, ma che non c’è mai stato. Basti pensare alle tante, troppe, riforme strutturali annunciate, ma mai concretamente avviate. Non si vede ambito nel quale non è mancata solo una solida visione di società possibile, ma anche il tentativo di una timida ancorché concreta rimodulazione dei processi: nella scuola, nella giustizia, nella sanità, nella fiscalità, nel quadro istituzionale.
11. Lo scenario nel quale ci muoviamo è affollato da non decisioni: sul contenimento della pressione migratoria, sulla digitalizzazione, sulla politica tributaria, sulle concessioni e sui lavori per le grandi infrastrutture di rete, sui servizi idrici o per i rifiuti, sulla collocazione delle scorie nucleari, solo per richiamarne alcune.
12. I limiti della politica attuale sono nella rassegnazione a non decidere. Non per aver scelto, ma per non averlo fatto, la politica ha fallito e ha smarrito se stessa. Vedendo cadere al suo punto più basso l’interesse a fare politica, a essere presenti e partecipi alla responsabilità collettiva, l’affidabilità delle sue parole, gli italiani non si sentono orfani: più semplicemente si sono disconnessi dalla politica, limitandosi al più ad osservarla, come in un reality.
13. La consapevolezza che la sfiducia sembra prevalere sulla speranza, che lo spirito di adattamento inerziale non basta più, che il processo di sviluppo sociale si è interrotto, che la politica ha fallito, non è abbastanza per offuscare lo sguardo e il bisogno di reagire e guardare avanti che la società esprime. I segnali di contrapposizione a un gioco e a un racconto al ribasso sono ancora deboli. E non vale alcuna promessa per il domani, se non che nella reazione al vortice della crisi e nell’avvio di nuovi e diversi processi di consolidamento dello sviluppo il nostro popolo si sta aprendo alla speranza e, se così sarà, la storia gli lascerà strada.