Roma, 4 dicembre 2015 – Ripartono i consumi, ma si riapre la forbice sociale. Per la prima volta dall’inizio della crisi, la quota di famiglie italiane che nell’ultimo anno hanno aumentato la propria capacità di spesa risulta superiore a quella delle famiglie che l’hanno invece ridotta (il 25,6% contro il 21,3%). Si tratta di un dato che segna una forte discontinuità con il recente passato: basti pensare che nel 2013 il 69,3% delle famiglie aveva dichiarato che la propria capacità di spesa si era ridotta. Desta comunque preoccupazione il fatto che continua a crescere, sfiorando ormai il 20% del totale, il numero di famiglie che non riescono a coprire tutte le spese con il proprio reddito: circa 5 milioni di famiglie hanno difficoltà a far tornare i conti e tra quelle di livello socio-economico basso la percentuale sale al 37,3%. Anche le previsioni riguardo a redditi, consumi e risparmi danno conferma di un clima generale che sembra virare in positivo. La grande maggioranza delle famiglie prevede comunque di attestarsi sui livelli di reddito, spesa e risparmi dell’anno precedente (rispettivamente, il 79,1%, il 77,6% e il 73,5%).
L’export italiano: un motore potente, ma da revisionare. L’export italiano complessivo (beni e servizi) rappresenta oggi il 29,6% del Pil (era il 25,6% nel 2000, ma era sceso fino al 22,5% nel 2009). Che si tratti di global player stabilmente presenti nei mercati trainanti o di piccoli esportatori di beni con un raggio di azione più limitato, le imprese esportatrici di beni sono attualmente circa 212.000, in crescita negli ultimi anni e in grado di veicolare all’estero un’idea dell’Italia legata ai prodotti di alta qualità, a politiche di marchio efficaci, a prodotti collocati nel top di gamma. Va però segnalata la scarsa incidenza, in termini di valore esportato, della pur massiccia partecipazione delle microimprese. La maggior parte degli operatori (il 64,2% del totale) si addensa nella classe più bassa di valore esportato (sotto i 75.000 euro). Circa 136.000 esportatori determinano un valore dell’export inferiore a 2,4 miliardi di euro: un’inezia rispetto al valore totale delle esportazioni italiane (lo 0,6%). In media, si tratta di poco meno di 17.000 euro ad esportatore. I grandi esportatori, quelli che esportano merci per un valore che eccede i 50 milioni di euro, sono solamente lo 0,5% del totale (961 soggetti), ma realizzano da soli quasi la metà dell’export italiano (circa 191 miliardi di euro). Se poi si guarda al numero di Paesi dove l’Italia esporta, va segnalata una miriade di soggetti (più di 91.000) che hanno come riferimento un solo Paese. Per contro, sono poco più di 4.300 le aziende che vendono i loro prodotti e servizi in più di 40 Paesi esteri, realizzando però il 43% circa del fatturato italiano all’estero.
L’imprenditoria straniera: una proliferazione in attesa di rappresentanza. Oggi gli stranieri residenti in Italia sono poco più di 5 milioni, ma possiamo stimare che al 2030 arriveranno a 8,3 milioni. Di questi, 7 milioni abiteranno al Centro-Nord. Qui la quota degli stranieri residenti, oggi poco sopra il 10%, si attesterà intorno al 17%, cioè ci sarà un cittadino straniero ogni cinque italiani. Nel Mezzogiorno invece rimarrà piuttosto bassa e non raggiungerà il 6% della popolazione. In prospettiva, sarà decisiva la capacità del Paese di passare da una logica emergenziale, improntata alla precarietà delle soluzioni, a una reale integrazione nel corpo sociale e nel tessuto economico di quella parte ormai consistente dei nuovi arrivati che hanno un progetto di inserimento a medio-lungo termine nella società italiana. Negli ultimi anni della crisi, l’occupazione degli stranieri residenti in Italia ha continuato a crescere, registrando un saldo positivo di oltre 260.000 occupati, laddove l’occupazione italiana è diminuita in tutti i settori economici. E tra il 2008 e il 2014 il numero dei titolari d’impresa stranieri è cresciuto di più del 30%, mentre quello degli italiani è diminuito di più del 10%. Pertanto, l’incidenza percentuale degli imprenditori stranieri sul totale è aumentata dal 9,2% al 12,9%.
La crisi dell’auto come fenomeno economico, sociale e culturale. Lo shock che ha colpito di recente il mondo dell’auto suggerisce qualche riflessione che può andare al di là delle analisi sulla perdita di reputazione del gruppo Volkswagen e del made in Germany nel suo complesso, il cui successo si basa in gran parte sull’affidabilità tecnologica. Tra il 2007 e il 2014 le immatricolazioni in Italia da parte dei privati si sono dimezzate, e gli acquisti delle famiglie sono passati dal 77,3% del totale nel 2009 al 62,6% del 2014. Nel frattempo crescono le quote di immatricolazioni da parte delle aziende e soprattutto dei noleggiatori. Proprio questi ultimi, che nel 2015 supereranno per la prima volta la percentuale del 20% del totale, rappresentano la proiezione al futuro del ruolo dell’auto nelle società avanzate: soggetti che vendono servizi di mobilità (in varie forme e destinazioni) e che intermediano il rapporto tra le aziende di produzione di beni per la mobilità privata e una collettività che sarà via via più orientata a utilizzarli, ma non necessariamente a possederli.
Imprese zavorrate dalla Pubblica Amministrazione. L’uscita dalla crisi, la stabilizzazione dei processi di ripresa e il recupero di competitività non possano prescindere dall’eliminazione di quello che si ravvisa come un handicap strutturale rappresentato da un sistema amministrativo inefficiente, ingombrante e costoso. La situazione è ulteriormente inasprita dalla produzione normativa regionale. Nel corso del 2013 le Regioni hanno fatto registrare complessivamente l’approvazione di 711 leggi e 398 regolamenti, facendoci schizzare al primo posto in Europa per produzione normativa, con valori più alti della Germania e che pesano il triplo della Spagna. Si aggiunga che ogni tentativo di semplificazione normativa sembra approdare a risultati insoddisfacenti: la Commissione parlamentare per la semplificazione ammette che per ogni 10 norme abrogate ne entrano in vigore 12 nuove di zecca. Senza che molte di esse, però, riescano a diventare operative, per il gioco perverso dei decreti attuativi che spesso rimangono lettera morta. A marzo 2014, dei 1.277 decreti necessari per mettere in moto le leggi approvate durante i governi Monti e Letta ne erano stati varati appena 462: poco più di un terzo di quelli previsti.
4 Dicembre 2015