Un immaginario collettivo senza forza propulsiva
Le passioni tristi di questi anni sono anche l’espressione di una crisi dell’immaginario collettivo, cioè di quell’insieme di valori di riferimento, di simboli e di miti in grado tanto di plasmare le aspirazioni individuali e i percorsi esistenziali di ciascuno, quanto di definire un’agenda sociale condivisa.
Nell’Italia del dopoguerra alle prese con la ricostruzione, nell’Italia del boom e del miracolo economico, nell’Italia della crescita per proliferazione dell’imprenditoria e del lavoro autonomo degli anni ’70, i cicli espansivi erano accompagnati da una prodigalità di miti positivi che fungevano da motore della lunga saga del ceto medio: una confidente progressione vitalistica fondata sulla forza di riscatto del lavoro, sulla spinta trasformatrice dei consumi, sulla leva securizzante della patrimonializzazione.
Oggi, invece, a immaginari plurimi, più instabili e variabili, con minore forza propulsiva rispetto al passato, corrispondono identità più labili, senza epiche fughe in avanti. Per averne una evidenza empirica, basta osservare la figura 25, che riproduce schematicamente una mappa del nuovo immaginario collettivo degli italiani per come si è ridefinito oggi:
- nei valori medi, riferiti alla totalità della popolazione, la graduatoria dei fattori centrali nell’immaginario collettivo odierno vede ancora al primo posto la rilevanza del lavoro con il mito del “posto fisso” (38,5%), subito seguito però in seconda posizione dai social network (28,3%), con una percentuale non dissimile da quella attribuita alla casa di proprietà (26,2%), allo smartphone (25,7%) e alla cura del corpo (22,7%) ‒ tutti fattori che precedono il possesso di un buon titolo di studio (14,4%) e l’acquisto dell’automobile nuova (10,2%);
- per gli ultrasessantacinquenni il posto fisso in azienda o nel pubblico impiego resta saldamente in cima alla graduatoria dei fattori ritenuti centrali (50,7%), insieme alla casa di proprietà (39,3%), per quanto oggi minacciati dalla condizione di insicurezza individuale e collettiva (al terzo posto con il 24,7%);
- ma mai come in questo caso è nei dettagli che il diavolo mette la coda, perché nelle fasce d’età più giovani (i 14-29enni, con valori del tutto simili a quelli dei 30-44enni) i vecchi miti appaiono consumati e stinti, e la gerarchia dei simboli è sovvertita: i social network salgono al primo posto (32,7%) e anche lo smartphone (26,9%), la cura del corpo (dai tatuaggi al fitness, alla chirurgia estetica, cui si ricorre per rimodellare il proprio aspetto: 23,1%) e il selfie (21,6%) occupano le prime posizioni, mentre sono relegati in fondo, nelle ultime posizioni della graduatoria, sia il buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale (il 14,9% tra gli under 30 e il 10,1% tra gli under 45), sia l’automobile nuova come oggetto del desiderio (rispettivamente, il 7,4% e il 10,1%).
Inoltre, tra i media che risultano più influenti nella ridefinizione dell’immaginario collettivo di oggi, il cinema, che in passato era stato il mezzo di comunicazione di massa più determinante nel veicolare valori e simboli di riferimento, occupa l’ultima posizione (con appena il 2,1% delle indicazioni) rispetto al ruolo egemonico conservato dalla televisione (28,5%) e a quello conquistato ormai dai social network (27,1%) e più in generale da internet (26,6%) (fig. 26).
Insomma, nella scala valoriale dei giovani sembrano contare la potenza dei social network ‒ con cui filtrare autonomamente il mondo esterno e condividere l’espressione di sé ‒, lo smartphone ‒ come oggetto di culto dall’alto impatto simbolico, oltre che funzionale ‒, il selfie ‒ come emblema dell’autoreferenzialità individualistica ‒, che ora affiancano ‒ e in alcuni casi scavalcano ‒ fattori in passato centrali come il tanto invocato posto fisso, la tanto celebrata casa di proprietà, il tanto auspicato acquisto dell’automobile nuova o il tanto agognato conseguimento di un buon titolo di studio come biglietto d’ingresso per i piani alti della scala sociale. Non è polvere di immaginario, ma lo spirito dei tempi: il punto da cui ripartire quando ci si interroga su come ritrovare una direzione di marcia comune.
Risentimento e nostalgia nella domanda politica di chi è rimasto indietro
I dati segnalano la dimensione colossale dell’onda di sfiducia che ha investito la politica e i suoi soggetti: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo centrale, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, dalle Regioni alle amministrazioni comunali (tab. 35).
Sono numeri che raccontano una insoddisfazione non estemporanea e pertanto slegata da singole figure politiche, e connessa piuttosto a una dimensione strutturale, di lungo periodo. È una sfiducia sistemica, il cui tocco corrosivo ha ormai raggiunto i gangli vitali della sfera socio-politica, poiché:
- il 60% degli italiani si dichiara insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese;-
- il 64% è convinto che la voce del cittadino semplicemente non conti nulla.
Dai servizi pubblici locali alla sanità, il digitale e i processi di disintermediazione hanno reso ancora meno tollerabile l’ipertrofia immobile delle amministrazioni pubbliche, generando un ulteriore fronte di erosione nel rapporto tra i cittadini e le istituzioni come esito di una improduttiva ingerenza politica:
- il 75% degli italiani giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici;
- il 67% dichiara di non avere fiducia nella Pubblica Amministrazione del nostro Paese.
Il giudizio degli italiani sulla moneta unica ‒ un altro emblema del percorso dell’unificazione europea ‒ è inequivocabile: ad essa non attribuiscono responsabilità inflazioniste (del resto, di inflazione non c’è stata traccia in questi anni) o responsabilità dirette nell’avvio della crisi, ma se il 19,9% ritiene che l’euro abbia incrementato il benessere dei cittadini facilitando gli scambi commerciali, per un ben più consistente 50,3% ha impoverito la maggioranza degli italiani. Al Nord la quota che attribuisce l’impoverimento all’euro si tiene sotto il 47%, al Centro è prossima al 52% e al Sud va largamente oltre il 54% (tab. 37).
Di fronte alla forza dirompente di linguaggi e contenuti populisti o neo-sovranisti e alle connesse soluzioni semplicistiche, per la gran parte impraticabili, ma che scaldano i cuori di tanti gruppi sociali in difficoltà a causa della crisi e della velocità delle dinamiche globali, i linguaggi della mediazione politica tradizionale balbettano. Allora non sorprende che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi globali siano anche i più sensibili alle sirene del sovranismo: per questo sono alla caccia di soggetti di rappresentanza in grado di restituire loro non solo quote di reddito, ma anche ruolo e riconoscimento sociale.