1. L’anno che si va completando pone a chi, come noi Censis, guarda e prova a interpretare il continuo cambiamento della società italiana un interrogativo di fondo: se, e in che misura, la ripresa economica si andrà consolidando nell’immediato futuro; se la crescita dell’economia globale porterà produzione, occupazione, consumi e benessere aggiuntivi anche nel nostro Paese.
Gli ultimi anni, segnati da livelli di crescita misurata in pochi o nessun punto decimale del Pil, hanno cambiato il Paese. La domanda, quindi, può essere posta anche in altri termini. Riguarda non solo e non tanto la robustezza e la continuità della ripresa economica ‒ peraltro condizionata da tanti fattori esterni finanziari, geopolitici, di regolazione europea, di nuove traiettorie tecnologiche ‒, quanto la possibilità di ritrovare e di rinnovare quella forza costitutiva, generatrice, del più intenso periodo di sviluppo del Paese, che è stata la nostra articolazione territoriale.
2. Anche quest’anno la società italiana si è mossa quasi esclusivamente lungo linee meridiane, resistendo a ogni tentativo di intessere una trama nei tessuti economici e sociali, allungando e ispessendo la propria capacità di azione lungo filiere settoriali e chiudendo i margini di azione laterali. In conseguenza, se non per risposta, alla recessione economica, il nostro Paese ha continuato a seguire processi a bassa interferenza reciproca, di disarticolazione delle giunture che uniscono le varie componenti sociali, lasciando spazio a una liquefazione che rafforza contenitori isolati e a forte tenuta interna, ma ne riduce la capacità di correlazione esterna. Abbiamo assistito a processi di:
- progressiva disintermediazione, affermando il dominio della relazione diretta tra rappresentante e rappresentato, tra produttore e consumatore, tra impresa e mercato, tra donatore e beneficiario, tra interesse collettivo e benessere individuale, sottraendo forza ai soggetti e agli strumenti della mediazione, spazzando via gli intermediari, accorciando ogni catena di relazioni;
- affermazione di consumi mediatici e di palinsesti informativi tutti giocati sulla presenza e rappresentazione individuali, con un linguaggio spesso involgarito per semplificazione e per convenienza, e avvicinando virtualmente i simili nello spazio globale;
- assestamento verso una sobrietà diffusa nei consumi individuali e collettivi, aprendo spazi all’economia low cost, alla condivisione di mezzi e di patrimoni, a strutture commerciali temporanee, con una rincorsa a cogliere le opportunità più prossime e per le quali non serve un investimento di medio o lungo periodo.
La politica è rimasta con il fiato corto, nell’incessante inseguimento di un quotidiano “mi piace”, nella personale verticalizzazione di presenza mediatica, distratta da ogni forma di articolazione degli obiettivi e dei metodi per conseguirli, con programmi di governo del Paese e delle città tanto annunciati quanto inattuati.
Il movimento silenzioso e costante lungo linee a bassa forza gravitazionale trova conferma anche nel successo di chi ha saputo stare dentro le grandi filiere e ha avuto la forza di mantenere il Paese tra i grandi dell’economia globale:
- la contrazione dei consumi e degli investimenti ha portato le imprese a concentrarsi quasi esclusivamente sulla ripresa di capacità competitiva, ma ha anche rafforzato tanti settori che nell’anno hanno accelerato in vigore e in fatturato e produttività ‒ dall’agroalimentare all’automazione, dai materiali per le costruzioni ai macchinari, dalla nautica all’automobile, dall’ingegneria al design, dal lusso alle assicurazioni;
- nel mondo articolato e complesso delle professioni, segnato da una riduzione delle opportunità e dei compensi senza precedenti nella storia italiana dal dopoguerra, si è affermata la convinzione che il futuro professionale dipende da una qualche forma di selezione e da reti basate sulle specializzazioni e sulle reti internazionali ‒ chi ha investito in questa direzione oggi raccoglie i primi frutti;
- nella gestione dei poli, delle reti e dei servizi infrastrutturali, delle concessioni pubbliche lo sforzo si è concentrato sulla capacità di intercettare e di estrarre valore dai flussi crescenti di persone e di merci in arrivo e in partenza ‒ e i risultati positivi cominciano a emergere con una qualche chiarezza.
Non si è avuta invece energia sufficiente ad affermare continuità e spessore tutti quei processi che muovono lungo linee parallele, d’intelaiatura in un tessuto connettivo condiviso e sufficientemente robusto, con un ulteriore e progressivo impoverimento delle funzioni attorno alle quali si forma e si organizza la società:
- si sono indebolite le funzioni selettive esercitate dalla politica industriale o dalla politica di investimento dei grandi investitori istituzionali, dalle centrali di acquisto pubbliche o dai grandi committenti privati; con uno spostamento di azione verso interventi a pioggia con i bonus o i crediti di imposta, con numeri di venture capital sulle imprese innovative molto lontani dai migliori parametri internazionali, con programmi orientati alla rimodulazione lineare della spesa più che al sostegno del tessuto imprenditoriale italiano;
- si sono quasi azzerate le funzioni di innervamento da parte delle amministrazioni pubbliche dei principali processi di miglioramento tecnologico, con un ritardo nella digitalizzazione della macchina burocratica divenuto patologico, con una inefficiente dispersione dei tanti progetti di informatizzazione, con una preoccupante incapacità di fermare investimenti finiti in un vicolo cieco e con un quadro via via più incerto su come tradurre in passi concreti il riallineamento all’agenda europea;
- funzioni di affidamento del merito di credito sono sempre più condizionate da basi dati e algoritmi, efficaci dal punto di vista della regolazione e della patrimonializzazione delle banche, ma troppo freddi nella relazione tra l’impresa e il suo contesto;
- anche la funzione di ammortizzazione economica dei circuiti commerciali, di scala minuta come nei grandi poli aggregatori, via via va lasciando spazio a un’imprenditoria immigrata o improvvisata che si muove dentro ecosistemi confusi e opachi, e che addensa le città di temporanei punti di consumo veloce.
Le riforme dell’apparato istituzionale per la scuola, il fisco, la sanità, la difesa interna e internazionale, le politiche attive per il lavoro, gli incentivi alle imprese, il rammendo delle grandi periferie urbane, fino alle riforme di livello costituzionale, sono tutte rimaste prigioniere nel confronto di breve termine e intrappolate nell’inconsistenza e nell’indifferenza collettiva. Con l’inevitabile conseguenza che, non avendo sedi dove portare interessi, identità, istanze economiche e sociali, gli stessi soggetti della rappresentanza proseguono il loro arretramento ‒ negli ordini professionali come nel sindacato, nelle organizzazioni datoriali come nelle casse private di previdenza e di assistenza, nell’agone politico come nel dibattito pubblico ‒ lasciando agire il frastuono comunicativo di presenza del leader.
3. Non c’è chi non veda, allora, che tanto nei processi di adattamento, dalla disintermediazione all’affermazione di palinsesti mediatici introflessi verso l’io, dalla crisi della rappresentanza all’annullamento della visione politica oltre la presenza mediatica, quanto nell’impoverimento delle interazioni orizzontali, il ruolo chiave sia tutto centrato, in positivo e in negativo, sull’affermazione delle nuove tecnologie. È nella dimensione tecnologica che le imprese italiane hanno trovato nuove vie di competitività e di successo; che le reti infrastrutturali come i professionisti hanno avuto nuove occasioni di specializzazione e di investimento; che il turismo, la cultura, l’istruzione, il lavoro hanno visto nuove opportunità di crescita.
4. Il lievito dello sviluppo sociale è l’abbattimento delle strutture e degli ecosistemi esistenti per preparare il terreno all’emergere del nuovo. E in questi anni l’innovazione tecnologica è stata il fattore propulsivo dominante, il maglio demolitore, il setacciatore di opportunità. Lo sviluppo tecnologico frantuma tutto: la storia ci insegna che è sempre stato così. E ogni innovazione tecnica porta con sé la forza di cambiare l’assetto sociale: il mutamento tecnologico ricombina fattori e funzioni, e prepara a un nuovo sviluppo economico e sociale.
La polarizzazione del lavoro determinata dalla domanda squilibrata verso professioni intellettuali ad alta competenza di base o verso servizi alla persona a bassa specializzazione professionale è una componente strutturale del progresso economico e industriale dettato dall’innovazione, ma ‒ e qui sta la preoccupazione di oggi ‒ il sistema-Paese risulta in affanno rispetto alle altre economie avanzate.
5. L’integrazione dei processi di aggregazione lungo traiettorie di specializzazione, con i processi di impoverimento delle funzioni sistemiche e con l’accelerazione continuata dettata dalle tecnologie e dai nuovi mezzi di comunicazione, ha portato a una società oggi meno impaurita del recente passato, ma anche meno solida. La fiducia verso il futuro cresce tra chi ha saputo avvicinarsi e stare dentro le linee di modernizzazione, meno tra chi subisce la fragilità del tessuto connettivo e di protezione sociale.
Il baratro economico-finanziario, con così tanta veemenza e convinzione annunciato, si è via via trasformato in un lungo sentiero in salita: le ferite economiche e dell’occupazione iniziano a guarire; i giovani ricominciano a guardare al fare impresa con occhi nuovi e a immaginare nuovi mestieri; i patrimoni riprendono lentamente a muoversi; la caduta dei valori immobiliari rimette in campo la mobilità interna alle città e prova a ridare sostanza al settore delle costruzioni; il debito pubblico, pur in continua ascesa, non desta, a ragione o meno, le preoccupazioni del passato.
La società senza ordine sistemico, come scriveva il Censis più volte nelle “Considerazioni generali” degli ultimi anni, ha cercato e trovato spazi di sopravvivenza in un ambiente sconnesso, pieno di buchi e di difetti nella trama strutturale, povera d’interconnessioni a rete fitta, ma via via più ricca di interazioni deboli e a breve raggio.
Trascurando le articolazioni funzionali, le diseguaglianze sociali e professionali, la potenza dei setacci che selezionano e separano i granuli che la compongono, la società italiana ha compiuto un lungo ciclo di sviluppo sociale silenzioso: uno sviluppo senza espansione economica, uno svolgimento senza ampliamento della base produttiva e della produzione.
Serve però ribadire che si tratta solo di un primo avvio lungo un nuovo ciclo e che permangono irrisolte le molte lacerazioni del tessuto sociale italiano. Le nubi minacciose all’orizzonte si vedono ancora. L’aver completato una lunga fase di transizione non offre alcuna garanzia di un futuro rinnovato benessere e vigore economico. Siamo un Paese invecchiato che fatica ad affacciarsi sullo stesso mare di un continente di giovani; impotente di fronte a cambiamenti climatici e a eventi catastrofici che chiedono grandi risorse e grande impegno collettivo; ferito dai crolli di scuole, di ponti, di abitazioni per una scarsa cultura della manutenzione; incerto sulla concreta possibilità di offrire pari opportunità al lavoro e all’imprenditoria femminile, immigrata, nelle aree a minore sviluppo; incerto nel dilagare di nuove tecnologie che spazzano via il lavoro, i redditi, i consumi e spostano il senso comune della riservatezza, della proprietà dei dati e delle informazioni, della memoria. Siamo un Paese ancora incapace di vedere nel Mezzogiorno una riserva di capacità e di ricchezza preziose per tutti.
6. Troppo spesso tendiamo a dimenticare che ciascuna persona, come ciascun gruppo sociale, trova vocazione e sentiero di crescita nelle difficoltà che la realtà quotidiana gli impone. La crisi è rottura delle aspirazioni, dell’ambizione individuale e collettiva a migliori condizioni di vita e di lavoro; è una linea di frattura lungo la quale si può declinare verso il basso o si possono porre le basi di un futuro migliore. L’arrestarsi dello sviluppo prepara a nuovi sviluppi, o almeno porta con sé il potenziale di un nuovo sviluppo: certamente di uno sviluppo molto diverso da quello che abbiamo conosciuto.
Senza l’accumularsi di tensioni non si producono quelle rotture per eccesso di carico o per fatica, per compressione o per cicli deboli e ripetuti. Tante ne abbiamo viste nel passato: dalla contestazione studentesca alla marcia dei quarantamila, dalla crisi monetaria al terrorismo, dal confronto di classe all’austerity energetica, dall’esplodere dell’inflazione a Tangentopoli: ogni ciclo di sviluppo ha le sue basi di concentrazione gravitazionale. Le intersezioni dei diversi processi economici e sociali appena richiamati non sembrano in grado di accumulare energia lungo dorsali di frattura ben definite. Ma in questi anni non abbiamo visto addensarsi una inquietudine sufficiente a determinare una crisi interna alla società.
Anche quest’anno sono pochi gli eventi di insofferenza collettiva: nel contrasto alle nuove infrastrutture come di fronte allo sgombero forzato di immobili occupati abusivamente, nelle periferie ad alta densità di immigrazione come nei centri storici a significativa presenza criminale, nelle manifestazioni di piazza come nei piazzali delle fabbriche. Come debole appare ogni sforzo di mobilitazione sociale e collettiva, segnata più da eventi isolati che da processi di progressiva compressione sociale. Le tante esplosioni di rabbia registrate negli ambiti familiari sembrano confermare il breve raggio di influenza anche della rabbia e della paura.
7. Lo sviluppo prepara a nuovi sviluppi, ma certo non li garantisce e, distinguendo, armonizza le differenze: si alimenta delle differenze. La ripresa economica registrata in questi ultimi mesi sembra indicare, più che l’avvio di un nuovo ciclo di sviluppo, il completamento del ciclo precedente. Si va chiudendo un decennio di frantumazione e di trasformazione sociale come base di una ricomposizione, anche di sistema, della quale vediamo le prime tracce, i primi deboli segnali. I processi che nel loro complesso hanno definito una società sconnessa, disintermediata, a scarsa capacità di interazione, a granuli via via più fini, sono tutti processi di molecole, ma molecole di una cosa unica. In questi anni di ripresa senza occupazione, di sviluppo silenzioso, su scala differente e rispondendo a segnali diversi, alcuni tra i tanti coriandoli italiani hanno compiuto un lento ma costante processo di riconoscimento e di armonizzazione delle differenze, segnali che l’anno che si va chiudendo porta ulteriormente alla luce.
8. Quando l’esploratore inizia il suo cammino ha dietro di sé un’intensa preparazione tecnica: degli uomini, dei mezzi di trasporto, delle attrezzature, delle alleanze necessarie a finanziarie l’impresa. E, soprattutto, ha dentro di sé l’immaginazione del suo viaggio, di quel nuovo mondo che è quasi una promessa di futuro. Immaginare e preparare sono per il viaggiatore le azioni costitutive. Il viaggio esige rispetto, riguardo, non spettacolo mediatico, ma sguardo a distanza.
Nella stessa misura, i gruppi sociali e i singoli individui hanno bisogno di immaginare il futuro, di riconoscersi in cammino verso un miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali. L’esplosione del ceto medio è stata resa possibile proprio da un immaginario collettivo potente, da un insieme di suggestioni e di aspirazioni differenziate, ma in qualche modo condivise. Affermare la propria impresa, arricchire la propria casa o costruirne una nuova, viaggiare per il mondo, consumare in misura e qualità crescenti, accumulare patrimoni solidi, sono esempi di quel lungo periodo che il rallentamento economico ha interrotto e dell’immaginario che ne ha alimentato il processo.
Immaginare il proprio futuro è una parte essenziale dei processi di evoluzione sociale: traducendo in passi concreti le aspirazioni e le tensioni a un miglioramento, l’immaginario collettivo ha un ruolo analogo per la società nel suo complesso di quello dell’immaginazione per l’esploratore. Il metodo si farà lungo il cammino, ma il cammino parte dalla visione, come il progetto si alimenta del sogno, della prospettiva di futuro. E la forza gravitazionale, l’accumularsi di tensioni e il concentrarsi di molecole, prepara nuove fratture e traduce l’immaginario in uno sforzo collettivo.
Il prezzo che abbiamo pagato a questo decennio di progresso sottotraccia è proprio il consumo, senza sostituzione, di quella passione per il futuro che esorta, sospinge, sprona ad affrettarsi, senza volgersi indietro.
9. Il futuro si è incollato al presente. Incollando il futuro al presente, la società italiana ha resistito anche alla tentazione di porsi il problema della sua classe dirigente, di coloro i quali sono in qualche modo chiamati a dare visione e senso dello sviluppo, a fare cultura del futuro come progetto. Con il risultato che, mentre i lenti movimenti interni costituivano parti via via più elementari della società, nel suo complesso questa si fa trovare impreparata. Se pochi sono stati gli esploratori, le retrovie si sono messe in attesa.
L’ininterrotta e tutto sommato sterile stagione elettorale, che dura da quasi due anni, ne è una testimonianza evidente, quasi che i decisori pubblici siano rimasti intrappolati non nel breve, ma nel brevissimo periodo. Il disimpegno dal varo delle riforme sistemiche, dalla realizzazione delle grandi e minute infrastrutture, dalla condizione delle periferie urbane, dalla politica industriale, dall’agenda digitale, dalla riduzione intelligente della spesa pubblica, dalla ricerca scientifica, dalla tutela della reputazione internazionale del Paese, dal dovere di una risposta alla domanda di inclusione sociale, ha prodotto una società che ha macinato sviluppo, ma che nel suo complesso è impreparata al futuro.
10. Distraendosi dal dovere di ascoltare il corpo sociale, le sue tensioni al nuovo e la domanda di innovazione, la classe politica ha perso di vista il suo principale compito: favorire l’insediamento del nuovo nel codice genetico dei soggetti dello sviluppo. La mutazione sociale di lungo periodo, che così tanto ha trasformato il Paese, ha bisogno che i tanti e minuti granuli che compongono il corpo sociale ricevano, anche dall’esterno, gli stimoli a insediare il nuovo. Stimoli che la politica dovrebbe offrire con un’intelligente miscela di preparazione e di immaginazione, e che la classe dirigente ben si è guardata dal trasmettere, limitandosi a risposte troppo spesso inconsistenti.
Se il corpo sociale come sommatoria di frammenti, ma parte di una cosa unica, ha dovuto voltarsi dall’altra parte per avere la necessaria agilità di muoversi, lasciando agire il gene egoista della propria sopravvivenza, la politica e la classe dirigente sono venute meno al compito di preparare e immaginare il futuro, di garantire le condizioni di tenuta e coesione sociale, di ascoltare e di rispondere alla complessità del quotidiano.
Se, come crediamo, il presente sta preparando il futuro sul binomio tecnologia-territorio, il progresso si basa sulla preparazione alla tecnologia con solidi sistemi di formazione e sulla valorizzazione del territorio con adeguate funzioni di rappresentanza politica ed economica. Ma la classe dirigente mostra tutto il suo arrancare e la sua fatica dietro al progresso.
Senza un rinnovato impegno politico e un diverso esercizio del potere pubblico, senza la preparazione di un immaginario potente, resteremo nella trappola del procedere a tentoni, alla ventura, senza metodo e obiettivi, senza ascoltare e prevedere il lento, silenzioso, progredire del corpo sociale.