Comunicati Stampa

Il capitolo «La società italiana al 2008» del 42° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2008

Aciclicità dell’economia e temperanza nei consumi sono la risposta italiana alla crisi

Internazionalizzazione permanente, nuovi italiani, mega cities, donne e cultura digitale i fattori trainanti della metamorfosi

Roma, 5 dicembre 2008 – Le strategie cautelative delle famiglie. Ben il 71,7% degli italiani pensa che il terremoto dei mercati finanziari potrà avere ripercussioni dirette sulla propria vita, solo il 28,3% dichiara che ne uscirà indenne. Nonostante le preoccupazioni, il 37% degli italiani pensa che la crisi potrebbe migliorarci, costringendoci a rivedere i nostri difetti; il 30,3% dichiara più cinicamente che, come sempre, ci scivolerà tutto addosso; e il 32,8% crede, più pessimisticamente, che la crisi farà emergere egoismi e interessi personali esasperati. Ciò che preoccupa di più tra i possibili effetti del credit crunch è il rischio di dover rinunciare in futuro al tenore di vita raggiunto (il 71,1% degli italiani). Se dalle aspettative, in gran parte condizionate dal quotidiano cannoneggiamento di notizie e prese di posizione ufficiali sulla recessione, si passa a valutare il numero di famiglie effettivamente interessate da fattori critici, lo scenario diventa più realistico. L’11,8% delle famiglie italiane (circa 2,9 milioni) possiede azioni e/o quote di Fondi comuni, soggette quindi all’alta volatilità del mercato borsistico; l’8,2% (circa 2 milioni) ha un mutuo per l’abitazione, ma solo 56.000 hanno saltato qualche pagamento e 193.000 hanno molta difficoltà a pagare le rate (250.000 famiglie nel complesso); il 12,8% (circa 3,1 milioni) usufruisce del credito al consumo. Tra le strategie per affrontare il difficile momento, il 33,9% degli italiani dichiara che intende risparmiare di più, cautelandosi rispetto agli imprevisti; il 25,2% sembrerebbe non avere altra strada che un significativo taglio dei consumi; in pochi si dichiarano confusi e incerti sul da farsi (9,6%), oppure orientati a lavorare di più (7,4%) o a barcamenarsi cercando di spendere di meno (8,6%); solo il 3,8% dichiara che sarà costretto a intaccare i risparmi messi da parte e lo 0,5% che si indebiterà.

La temperanza nei consumi garantisce il buon vivere. Sempre più orientati alla liquidità, in fuga dal risparmio gestito, gli italiani ritengono che in questa fase i soldi vadano tenuti in contanti (29,3%), in depositi bancari e/o postali (23,4%) o, al limite, vadano usati per cogliere una buona occasione sul mercato immobiliare in rallentamento (22,2%). Se proprio si deve investire, è meglio ricorrere agli inossidabili titoli di Stato (16,4%). La propensione alla cautela, spesso tacciata di arretratezza o chiusura all’innovazione, si sta dimostrando una polizza contro l’erosione delle risorse familiari. Infatti, per quanto riguarda i consumi, stime del Censis fissano in oltre 5,5 milioni gli «indenni», vale a dire gli italiani che spenderanno allo stesso modo usufruendo di un ampio paniere di beni e servizi (8 su 13 tipologie di consumo); all’estremo opposto, sono poco più di 880 mila i «penalizzati», che dovranno tagliare radicalmente i consumi rinunciando a gran parte delle spese. Mentre sono decisamente elevate le quote di italiani che definiscono irrinunciabili (mantenendo la spesa almeno agli attuali livelli) singoli settori di consumo: il cellulare (quasi il 59% degli attuali utilizzatori, oltre il 69% tra i più giovani, in totale 26,8 milioni di persone), una vacanza l’anno di almeno una settimana (53,7%, 21,1 milioni), l’automobile (50%, oltre 17,8 milioni), gli alimenti della propria dieta quotidiana (quasi il 48%, 23,2 milioni), le spese per le attività sportive e per il fitness (47,8%, 10,1 milioni), il parrucchiere e l’estetista (41%, quasi 18 milioni). Le spese per il dentista e le visite mediche specialistiche sono giudicate irrinunciabili dall’85,8% degli italiani. Quote inferiori, ma comunque significative, difenderanno l’abitudine di cenare al ristorante almeno una volta al mese (33,6%, 11,9 milioni di persone), le spese legate a hobby personali (35,9%, 9,3 milioni), l’acquisto di almeno alcuni capi di abbigliamento di qualità e/o firmati (25,1%, 8,4 milioni).

L’aciclicità del nostro sistema economico ci difende dal grande crack. In Italia quasi il 21% del valore aggiunto prodotto deriva dal settore manifatturiero, più del Regno Unito (16,6%) e della Francia (14,1%). Il 27,6% proviene dal sistema finanziario (banche, assicurazioni e altri soggetti di intermediazione), meno che nel Regno Unito (33,8%), in Francia (33,3%) e Germania (29,2%). Nei primi sette mesi dell’anno, inoltre, hanno continuato a crescere le esportazioni dei principali comparti manifatturieri: +31% i prodotti petroliferi raffinati, +11% quelli alimentari, +5,5% la meccanica. La struttura finanziaria delle imprese e il loro rapporto con il sistema bancario restano solidi. La dotazione in strumenti liquidi (biglietti, depositi e titoli di Stato prontamente liquidabili) è consistente, 252 miliardi di euro nella prima parte del 2008, oltre 1 miliardo in più rispetto alla fine del 2007. L’indebitamento delle imprese, cresciuto negli ultimi trimestri, a metà del 2008 resta al 75% del Pil (era il 68% a fine 2006), molto più basso che in Francia, Regno Unito e Spagna, dove si supera da tempo il 100%.

Sempre più player globali. L’industria italiana ha seguito un doppio binario di riposizionamento a livello globale: ha progressivamente accentuato la direzione orientale e mediterranea delle esportazioni, e ha esteso oltre il made in Italy la capacità di intercettare la domanda mondiale di beni. Nel periodo 2005-2007 il valore esportato dal made in Italy verso i Paesi dell’Unione europea è cresciuto dell’8,4%, ma spiccano i dati relativi ai Paesi di recente adesione, come la Polonia (+41,1%) e la Repubblica Ceca (+19,4%), e poi India (+61,6%), Egitto (+60,1%), Russia (+48,2%), Cina (+27,5%), Brasile (+25,9%). L’export dell’intero manifatturiero mostra livelli di crescita in valore anche superiori a quelli del made in Italy (+15,4% contro +12,2% a livello mondiale).

Da immigrati a nuovi italiani. Uno dei tratti principali della «seconda metamorfosi» italiana è costituito dalla presenza numerosa e attiva di nuovi cittadini che, pur nella diversità di provenienze, culture e linguaggi, hanno assunto ruoli, comportamenti e percorsi di vita non dissimili da quelli degli italiani. Solo vent’anni fa gli stranieri residenti erano appena lo 0,8% della popolazione, nel 1998 erano 1 milione di persone, mentre oggi sono ben 3,4 milioni. Ci avviamo a raggiungere la soglia del 6% della popolazione complessiva, ma nel Centro-Nord siamo già oltre: a Milano, ad esempio, a più del 13%, a Torino e Firenze al 9%. Si affermano modalità di integrazione tipiche del nostro modello di sviluppo: nella dimensione familiare e in quella micro-imprenditoriale. Oggi sono 1.367.000 le famiglie con capofamiglia straniero (il 5,6% del totale); aumentano i matrimoni con almeno uno sposo straniero (oltre 34.000, pari al 14% del totale); cresce il numero delle nascite di figli di stranieri (64.000, l’11,4% del totale dei nati in Italia, erano 33.000 nel 2003); la fecondità delle donne straniere (2,50 figli per donna) è doppia di quella delle italiane (1,26) e si attesta su valori simili a quelli dell’Italia del baby boom. Il numero di alunni stranieri presenti nelle scuole cresce al ritmo di 60/70.000 l’anno; appena dieci anni fa erano circa 60.000 (lo 0,7% del totale), oggi sono più di 500.000 (il 5,6% del totale, che sale al 6,8% nella scuola primaria). Nel 2007 le micro-imprese gestite da immigrati hanno raggiunto le 225.408 unità, con 37.531 imprese di extra-comunitari avviate nel corso dell’anno (+8% rispetto all’anno prima).

Convivere nelle mega cities. L’Italia delle «cento città» si sta trasformando nell’Italia delle mega conurbazioni urbane. Se ne possono distinguere 14: due «mega regioni», quella lombarda e quella veneta, composte da diverse province; sei aree metropolitane (Torino, Roma, Verona, Napoli, Palermo e Cagliari); quattro sistemi lineari costieri (ligure, alto-adriatico, basso-adriatico, della Sicilia orientale); due «aste territoriali» (quella emiliana e quella toscana). Le grandi aree metropolitane e le mega conurbazioni urbane rappresentano il 17% della superficie del Paese, vi risiedono 36,4 milioni di abitanti (il 61% della popolazione), vi sono insediate il 63% delle attività industriali e terziarie e il 71% delle imprese del terziario avanzato. Se nei comuni con più di 250.000 abitanti le imprese attive nell’industria e nei servizi sono cresciute del 14,1% negli ultimi sette anni, nel territorio circostante ormai inglobato (i comuni di prima e seconda cintura) la crescita è stata rispettivamente del 17,4% e del 19,1%.

Mezzogiorno: due territori, una nazione. Due Italie sempre più lontane, a causa delle marcate differenze fra Nord e Sud, compongono una nazione con deprimenti valori medi dei principali indicatori rispetto agli altri grandi Paesi europei. È questa la principale vulnerabilità del sistema che procede verso una silenziosa metamorfosi. L’Italia del Centro-Nord ha un Pil pro-capite (29.445 euro) più elevato di Regno Unito (29.140 euro), Germania (28.068 euro), Francia (27.593 euro) e Spagna (26.519 euro). La nazione Italia, invece, ha il valore più basso per lo scarso apporto meridionale, dove il Pil pro-capite scende a 17.046 euro. Nell’export di beni, sempre pro-capite, siamo già secondi solo alla Germania, ma l’Italia del Centro-Nord supererebbe la media dell’Europa a 27 con 7.835 euro per abitante. Nel Mezzogiorno i diplomati sono il 44,3% della popolazione di 25-64 anni, 39 punti in meno della Germania (83,2%) e 23 punti in meno della Francia (67,4%).

I rischi del lavoro all’ingrosso. Si conferma l’aumento degli impieghi atipici, che oggi si attestano all’11,9% dell’intera occupazione. Ma il lavoro a tempo indeterminato rimane la modalità contrattuale privilegiata come garanzia di lavoro (è l’opinione del 42,5% degli italiani) e quella che dà maggiore soddisfazione (66,1%). Il lavoro a tempo determinato, le prestazioni occasionali e le collaborazioni sono ritenute utili per offrire occupazione dal 41,9% degli italiani, ma se si parla di soddisfazione del lavoratore la percentuale crolla al 12,9%. Dal 2004 al 2007 le persone che non cercano lavoro perché temono di non trovarlo sono aumentate del 22,8%; coloro che non hanno un lavoro e che sono disponibili a lavorare sono diminuiti del 23,5%. Cresce cioè una sorta di scoraggiamento nei confronti della possibilità di occuparsi che coinvolge quasi 1 milione 400 mila persone.

 

5 Dicembre 2008