Roma, 6 dicembre 2013 – Il futuro incerto del lavoro. Il 2013 si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza sul futuro del lavoro in Italia. Secondo un’indagine del Censis condotta a settembre del 2013, un quarto degli occupati è convinto che nei primi mesi del 2014 la propria condizione lavorativa andrà peggiorando, il 14,3% pensa che avrà a breve una riduzione del proprio reddito da lavoro e il 14% di poter perdere l’occupazione. Il sentiment di sfiducia è alimentato dal deterioramento di un quadro di contesto che ha visto, soprattutto nell’ultimo anno, allargare il perimetro della crisi dalle fasce generazionali più giovani a quelle più adulte. Se anche nel 2013 è proseguita l’emorragia di posti di lavoro tra i giovani, con una perdita netta nel primo semestre di 476.000 occupati (-8,1%), che si sommano al milione e mezzo circa bruciati dall’inizio della crisi, anche nella fascia d’età successiva, tra i 35 e i 44 anni, il numero degli occupati è diminuito di quasi 200.000 unità, registrando una contrazione del 2,7%. E sono quasi 6 milioni gli occupati che nell’ultimo anno si sono trovati a fare i conti con una o più situazioni di instabilità e precarietà lavorativa. Un’area di disagio che rappresenta il 25,9% dei lavoratori e che può essere riconducibile all’instabilità lavorativa (che interessa una platea di 3,5 milioni di persone tra lavoratori a termine, occasionali, collaboratori e finte partite Iva) e alla sottoccupazione (relativa ai 2,8 milioni che vorrebbero lavorare più di quanto non facciano, ma non riescono per motivi che non dipendono da loro: tra questi vi sono 2.219.000 part-time involontari, ma anche cassaintegrati). Tra il 2007 e il 2012, mentre il numero totale degli occupati è diminuito (-1,4%), quello di quanti si trovano in una delle condizioni descritte è invece cresciuto dell’8,7%.
Il valore delle competenze in tempo di crisi. I settori del lavoro tradizionalmente forti hanno subito un pesante ridimensionamento, con un calo degli occupati tra il 2008 e il 2012 del 10,8% nelle costruzioni, 10,2% nella manifattura, 3,8% nella logistica e dell’1,3% nel commercio. Di contro, altri comparti hanno fatto registrare trend postivi: tra questi vi sono le attività professionali di tipo tecnico-scientifico (+2,3%), quelle di programmazione, consulenza informatica e affini che, seppure ricomprese in un settore sostanzialmente stabile – quello dell’informazione e comunicazione (+0,1%) – fanno registrare un deciso balzo in avanti quanto a occupati (+4,7%). Cresce la domanda di competenze informatiche, linguistiche, ma anche e soprattutto tecniche e tecnologiche. Ma su questo il nostro sistema formativo non sembra garantire adeguata risposta. Da un’indagine condotta dal Censis sulle imprese guidate dai Cavalieri del lavoro emerge, nel confronto tra giovani italiani e stranieri, una preparazione tecnica non sempre all’altezza delle aspettative del mercato: soltanto il 12,2% degli imprenditori ritiene i nostri competitivi, a fronte del 65,5% che invece preferisce i giovani di altri Paesi; rispetto alla preparazione teorica, invece, la situazione si presenta speculare, e i giovani italiani sono sensibilmente più competitivi dei colleghi stranieri (lo dichiara il 47,5% degli intervistati). Ottimi studenti, che tuttavia quando entrano in azienda appaiono disorientati, in buona parte a causa dello scollamento esistente tra mercato del lavoro, da una parte, e istituzioni scolastiche e universitarie, dall’altra. E soltanto la grande capacità innovativa e creativa che si riconosce ai giovani italiani (sul piano della creatività essi sembrano avere ben pochi rivali e ben l’83,7% degli imprenditori li ritiene più competitivi) possono far fronte alle debolezze di tipo tecnico e specialistico, ormai sempre più centrali nel mercato del lavoro.
Ripartire dalla scuola per valorizzare l’artigianato. Dal 2007 al 2012 il numero delle imprese artigiane attive è diminuito di circa 50.000 unità, a causa anche della mancata generazione di nuova classe imprenditoriale artigiana. Le imprese con titolari di età inferiore ai 30 anni sono passate dal rappresentare l’8,1% del totale nel 2007 al 6,5% del 2012, registrando una perdita netta di circa 20.000 imprese. Secondo una recente indagine Censis-Confartigianato sugli studenti degli ultimi due anni di scuola superiore o professionale, l’11,9% è già indirizzato sulla strada di futuro artigiano, il 19,4% si dichiara possibilista, ma il 31,4% si dichiara disponibile a svolgere un mestiere artigiano solo se non troverà nessun altro lavoro. Il 37,3% esprime un rifiuto categorico e incondizionato. Tra i giovani tende a prevalere un’immagine del tutto stereotipata e tradizionale del lavoro artigiano caratterizzata dalla centralità del concetto di manualità, che finisce per mettere in ombra tutti gli altri (ben il 97% degli studenti interpellati sceglie l’aggettivo «manuale» per descrivere il lavoro artigiano); dalla mancata percezione del carattere innovativo e tecnico di tale lavoro (solo il 51,2% dei giovani attribuisce l’aggettivo «tecnico» al lavoro artigiano e solo il 45,6% lo definisce «innovativo»); dalla conseguente immagine di un lavoro che in tutto e per tutto riporta al passato, non solo perché svolto con le mani, ma anche in quanto faticoso (89%), antico (81,9%), per molti versi umile (58,6%).
Verso un sistema più organizzato di servizi alla persona. Quello per il welfare informale è un costo che grava quasi interamente sui bilanci familiari, visto che a fronte di una spesa media di 667 euro al mese, solo il 31,4% delle famiglie riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico che si configura per i più nell’accompagno (19,9%). Se complessivamente la spesa che le famiglie sostengono incide per il 29,5% sul reddito familiare, non stupisce che già oggi, in piena recessione, la maggioranza (56,4%) non riesca più a farvi fronte e sia corsa ai ripari: il 48,2% ha ridotto i consumi pur di mantenere il collaboratore, il 20,2% ha intaccato i propri risparmi, addirittura il 2,8% delle famiglie si è dovuta indebitare.
L’agricoltura italiana alla prova del ricambio generazionale. Nell’agricoltura è in corso da tempo un lento e profondo processo di rinnovamento, che trova origine nel ringiovanimento delle imprese. Tra il 2009 e il 2012, mentre la quota di aziende registrate alle Camere di commercio prima del 1989 è andata progressivamente assottigliandosi, riportando un calo del 12,1%, e quelle create tra il 1990 e il 2000 si sono ridotte sensibilmente (-17,1%), le aziende più giovani, nate dopo il 2000, sono invece cresciute significativamente (+15%), arrivando a rappresentare quasi il 40% del totale delle imprese agricole e agroalimentari. Il ricambio del tessuto d’impresa ha coinciso anche con il consolidarsi di una nuova generazione di giovani imprenditori, portatori di una logica di gestione e organizzazione dell’attività imprenditoriale diversa dal passato. Se tra gli imprenditori con più di 40 anni la maggioranza (38%) ha al massimo la licenza elementare e il 31,2% quella media, tra i giovani imprenditori agricoli il livello medio di istruzione cresce sensibilmente: tra i 25-39enni il 45,3% è in possesso di un diploma di scuola superiore e l’11,2% ha una laurea. E tra quanti decidono di intraprendere tale tipo di attività prima dei 25 anni, ben il 65,3% ha un diploma superiore e il 5,2% è già laureato.
6 Dicembre 2013