Roma, 6 dicembre 2024 – Si torna a ragionare di crescita. La questione di come sostenere il progresso della società italiana non può più essere rinviata. Il Paese ha iniziato timidamente a considerare la possibilità di assimilare i processi emergenti e di costruire percorsi di crescita con essi coerenti, perché è emerso il deficit di padroneggiamento collettivo delle profonde trasformazioni che lo scorrere della storia impone alla società italiana. Ne troviamo molti esempi: il problema dei salari e l’impossibilità di continuare a considerare il costo del lavoro come il principale ammortizzatore della perdita di produttività; il rumoroso affermare l’importanza dei dati e degli algoritmi per affrontare la sfida dell’intelligenza artificiale; il richiamo a rimettere mano all’integrazione europea rivedendo patti, trattati, istituzioni; il passaggio generazionale nella proprietà e nella gestione delle imprese di ogni taglia e dimensione.
Nel tempo si sono alternati miti e speranze della programmazione e delle riforme, senza rimuovere le incrostazioni del passato. Non hanno funzionato le ipotesi di un governo per carisma, per sovrabbondanza di poteri, per esercizio di capipopolo che decidono per tutti battendo i pugni sul tavolo. In mezzo, le abbiamo provate tutte: i governi tecnici dei migliori o di transizione, i governi sovranisti o populisti, la devoluzione dei poteri e l’autonomia differenziata, l’antipolitica asfaltante.
Il corpo sociale, invece, anche in una società fragile e slabbrata, segue sempre una sua logica e tende a riportare a regime il motore dello sviluppo. Dentro l’oscillare di continuità e cambiamento, di attesa e trasformazione, di cinismo individualista e coesione collettiva, come sempre il respiro sociale cerca un proprio ritmo per esercitare le proprie intenzioni.
Tuttavia, è alto il rischio che, dopo la vigorosa ripresa post-pandemia, peraltro eccezionalmente sostenuta dall’indebitamento pubblico, le prospettive di crescita dell’Italia si vadano rapidamente annuvolando.
Dopo anni – ormai più di un quindicennio – in cui la società italiana è rimasta alla finestra, si affacciano all’orizzonte un nuovo scenario mondiale e un nuovo scenario tecnologico nei quali le barche non salgono e non scendono più tutte con la stessa marea. In larghissima maggioranza, gli italiani galleggiano, nonostante tutto e come sempre. Galleggiare abilmente non ci protegge però da una lunga serie di inconvenienti.
In un Paese che sente l’affanno del rimettersi in movimento, che rimette in gioco le sue dimensioni intermedie, che depotenzia le spinte imitative, che prova a muovere l’acqua non solo per galleggiare e sopravvivere, ma anche per muoversi su nuove rotte, resta l’antico vizio di una scarsità di direzione, di un’assenza di traguardi e di coraggio per affermarli. È faticoso dare direzione allo sviluppo, immaginare una rotta e seguire una tabella di navigazione.
Fare politica è un esercizio alto, è l’arte del consenso e dell’interpretazione dei sentimenti e dei bisogni sociali, è un compito complesso di responsabilità e immaginazione: significa leggere nel Paese lo sguardo nel futuro. Eppure, l’anno che si chiude lascia l’amaro sapore di una politica tutta giocata sul gusto non di fare, ma di essere politici.
Non siamo una società in corsa tuonante per lo sviluppo, quindi, ma nemmeno siamo diventati un popolo di poveri diavoli destinati a rimanere miserabili. La nostra società è molto più meticcia di quanto si dica, avvezza a mescolare valori e significati, persone e comportamenti. Un po’ occidentale e un po’ mediterranea, levantina e mediorientale, contadina e cibernetica, poliglotta e dialettale, mondana e plebea.
In una società chiusa, la crescita o non c’è o è drammaticamente lenta. Lo sviluppo economico, sociale e del benessere personale matura e diviene concreto nelle società capaci di aprirsi al nuovo, di spezzare il recinto, di esplorare nuovi confini, di accogliere nuovi innesti, di correre nuovi pericoli. Quando, viceversa, a ciascun gruppo sociale non sono accessibili reali possibilità di mobilità, avanzamento, promozione individuale, una società resta intrappolata in sé stessa, si ripiega, aspetta.
Una società aperta porta con sé dei rischi, per le istituzioni collettive e per la vita privata. Con i rischi, porta anche preoccupazioni relative alla perdita di sicurezza, alle limitazioni alla redistribuzione delle rendite, all’ibridazione culturale. Rischi che al momento la nostra società non sembra disponibile ad assumersi, ma che, allo stesso tempo, non può permettersi di non correre, se vuole crescere e non più galleggiare.
Dopo un così lungo tempo trascorso nell’attesa, bisogna prendersi il rischio di andare oltre.
6 Dicembre 2024