Roma, 4 dicembre 2020 – Nodo infrastrutture: perché il Ponte di Genova non può essere considerato un modello. Il crollo del Ponte Morandi ha rappresentato uno shock per il Paese e la ricostruzione è diventata una priorità nazionale. Ma è difficile parlare di «modello» da replicare, vista la sua eccezionalità basata su alcuni fattori specifici: ricalcare il tracciato del viadotto preesistente per non dover intervenire sulle gallerie (con una conseguente dilatazione dei tempi), individuare un Commissario straordinario (il sindaco della città) investito di poteri speciali, fare riferimento alla Direttiva europea che consente per comprovate esigenze di urgenza di aggiudicare appalti pubblici mediante una procedura negoziata senza la pubblicazione di un bando di gara, partire da un progetto donato alla città dal più illustre architetto italiano, preferire un’idea di ponte semplice e non ardita, non dover fare i conti con problemi di budget, affidare le attività di organizzazione del cantiere a un soggetto terzo avvalendosi di tecniche avanzate di project management. Per le altre opere infrastrutturali del Paese il tempo complessivo di attuazione è invece pari in media a 4 anni e 5 mesi, la fase di progettazione presenta durate medie variabili tra 2 e 6 anni, la fase di aggiudicazione dei lavori oscilla tra 5 e 20 mesi, i tempi medi di esecuzione variano tra 5 mesi e quasi 8 anni.
Internet ovunque come necessità indifferibile: il digitale italiano nei territori. Gli indicatori del Desi (Digital Economy and Society Index) mostrano due facce opposte della digitalizzazione italiana. Da un lato, abbiamo un buon punteggio nell’indice di connettività, merito soprattutto dell’ottima performance della connettività mobile e dei prezzi. Dall’altro, abbiamo il punteggio peggiore nell’indice di capitale umano. Se per recuperare terreno sulla banda larga e ultralarga si sta lavorando, per colmare il gap di alfabetizzazione digitale le iniziative sono frammentate. Il Censis ha elaborato un indice di digitalizzazione delle province italiane. La Pubblica Amministrazione più digitalizzata è quella della provincia di Ravenna. Gli altri territori con un punteggio totale elevato sono le aree metropolitane (Roma, Bologna, Firenze, Cagliari e Torino) insieme alle province di Modena e Reggio Emilia.
I Comuni italiani di fronte alla prova del lockdown. Il ruolo dei Comuni è stato fondamentale nella gestione dell’impatto sociale della fase 1. Il Censis ha effettuato una ricognizione negli oltre 100 Comuni capoluogo del Paese da cui emerge l’impegno nell’offerta ai cittadini di un supporto materiale e psicologico. Le raccolte di fondi straordinarie per aiutare le famiglie in difficoltà, gli ospedali e le strutture sanitarie sono state organizzate da 8 capoluoghi su 10 (nel Centro Italia si sfiora il 100%). Più dell’80% dei Comuni ha provveduto a organizzare servizi di consegna a domicilio di farmaci e spesa alimentare alle persone con difficoltà ad uscire di casa, soprattutto anziani soli (al Sud il dato si ferma al 64%). Più del 70% ha istituito servizi di supporto psicologico a distanza durante la quarantena.
La questione casa dopo l’esperienza del confinamento domestico. Sebbene il valore medio della superficie delle case in Italia sia pari a 117 mq, nel nostro Paese la quota di famiglie che risiedono in un alloggio in condizioni di sovraffollamento è tra le più alte d’Europa: il 27,8% rispetto all’8,2% della Francia, il 7,4% della Germania, il 4,8% del Regno Unito, il 4,7% della Spagna. Tra le persone in affitto sul mercato privato le condizioni di spazio inadeguato riguardano ben il 42% dei nuclei familiari, mentre si scende al 21% tra le famiglie proprietarie dell’alloggio. Condizioni di sovraffollamento riguardano il 41,9% dei minori, contro appena il 10,4% degli over 65 anni.
La domanda di mobilità urbana tra crisi sanitaria, nuove abitudini di vita e di lavoro, nuove soluzioni tecnologiche. Il 37% degli italiani utilizza molto meno di prima i mezzi pubblici, sostituendoli con l’automobile, la bicicletta o spostandosi a piedi quando possibile. L’82,5% delle Pmi (le imprese con meno di 10 addetti) ritiene che in futuro nessun lavoratore potrà operare in regime di smart working. Questa percentuale scende al 66,4% tra le aziende di dimensioni maggiori (10-49 addetti). Si può stimare che 14 milioni di persone, tra addetti del settore privato e impiegati pubblici, opereranno presso le abituali sedi di lavoro e 3,5 milioni con modalità nuove che non prevedono una presenza giornaliera costante.
L’importanza (e l’opportunità) di ricollocare i parchi italiani al centro della questione ambientale. Disponiamo di un patrimonio costituito da 25 parchi nazionali (1,5 milioni di ettari), 134 parchi regionali (1,3 milioni di ettari), più l’insieme delle aree naturali protette di diversa origine. Nel complesso si tratta di più di 3,1 milioni di ettari di superfici terrestre (il 10,5% del territorio nazionale) a cui si aggiungono 2,8 milioni di ettari a mare. Gli scenari del futuro smart working (se e quando decollerà in forme proprie e non come risposta emergenziale) potrebbero candidare i parchi a luoghi di lavoro per ceti professionali fino ad oggi ancorati ai poli produttivi metropolitani. Le seconde case all’interno dei parchi potranno così vivere una seconda vita, superando la storica antinomia tra gli interessi dei residenti e quelli dei turisti.
4 Dicembre 2020