Un immaginario collettivo basato sulla cura degli animali da affezione…
Utile e professionale: sono questi i tratti costitutivi del lavoro del medico veterinario nell’immaginario collettivo, che vanno a formare, insieme ad altre due qualità riconosciute a questa professione, ovvero che si tratta di un lavoro affascinante e complesso, il puzzle tutto positivo di un professionista la cui immagine è legata principalmente alla cura degli animali da affezione.
Questi ultimi rappresentano una parte integrante del nucleo famigliare, cui si dedicano le stesse attenzioni e le stesse cure che vengono rivolte agli altri componenti della famiglia: andare dal medico veterinario non è un vezzo, ma è una necessità, che deriva dal bisogno di star bene noi e di far star bene i nostri animali.
Il 35,3% degli italiani adulti ([1]) pensa che quello del medico veterinario sia soprattutto un lavoro utile e il 28,5% professionale, segue un 13,8% che definisce il lavoro principalmente come complesso, e il 12,1% che pensa che sia affascinante (tab. 1).
Assolutamente residuale la quota di popolazione che sottolinea aspetti meno positivi di una professione che per il 3,9% degli italiani è soprattutto manuale, per il 3,0% sporca, per l’1,9% pericolosa e per l’1,6% ripetitiva.
Tra i millennials di età inferiore ai 34 anni viene maggiormente riconosciuta la complessità della professione (indicata dal 17,5% degli intervistati), ma sono anche più numerosi quelli che sono convinti che si tratti di un lavoro manuale (7,4%) e sporco (6,0%), confermando come prevalga, anche nell’immaginario giovanile, una visione della professione ancorata ai suoi aspetti più stereotipati.
Il bagaglio di competenze e conoscenze necessarie per praticare la professione è meno conosciuto tra chi è poco scolarizzato o appartiene a nuclei famigliari a basso reddito. Il 31,3% dei laureati e il 37,5% degli italiani che appartengono a nuclei familiari che hanno un reddito medio-alto definiscono il lavoro del medico veterinario come professionale, superando addirittura chi lo definisce utile. Tra i meno scolarizzati, invece, sale al 44,7% la quota di quelli che pensano che il lavoro del medico veterinario sia soprattutto utile, percentuale che è pari al 41,1% tra chi ha redditi che non superano i 1.000 euro mensili.
La considerazione assolutamente positiva di cui godono i medici veterinari e il riconoscimento del loro valore sociale, che si uniscono ad una scarsa conoscenza dell’effettiva complessità e della spendibilità della professione, sono confermati da quello che dichiarano gli italiani in merito alla scelta universitaria.
La stragrande maggioranza della popolazione, il 63,3% del totale, dichiara che incoraggerebbe un giovane a cui tiene nello scegliere il percorso di studi universitari di medicina veterinaria, mentre il 14,8% lo scoraggerebbe, e il 21,9% dichiara che non saprebbe cosa consigliargli (fig. 1).
Il motivo principale per cui gli intervistati consiglierebbero ad un conoscente di intraprendere il percorso universitario da veterinario è dato dal riconoscimento del valore sociale di una professione che considerano soprattutto utile (38,0%) e affascinante (32,3%) (fig. 2).
Meno importanza, probabilmente nella convinzione che fare il medico veterinario sia una vocazione a cui non si può dire di no, sembra essere data alla valutazione della reale possibilità di trovare un lavoro, segnalata come elemento guida per effettuare la scelta dal 29,8% degli intervistati. Anche in questo caso, i meno scolarizzati, che hanno al massimo la licenza media, sottolineano maggiormente l’utilità della professione (49,0% del totale), mentre tra i laureati la prima motivazione è la facilità di trovare lavoro, segnalata dal 34,9% del totale.
Sul versante opposto, il motivo principale addotto da quel 14,8% di italiani che scoraggerebbero il giovane studente è proprio la convinzione che sia difficile trovare un lavoro (60,1%), mentre sono assolutamente minoritari quelli che puntano il dito sul fatto che si tratti di un’attività inutile (16,9%) e poco interessante (23,0%).
A chi è in grado di esprimere una valutazione sulla scelta universitaria, si aggiunge un 21,9% di italiani che dichiarano che non sarebbero in grado di dare un consiglio. Il motivo principale è che si tratta di una professione di cui sono poco visibili le attività e i risultati (43,6%), mentre gli altri osservano che si tratta di una professione di cui sa poco (24,5%) o niente (31,8%), a testimoniare di come a molti non siano così chiari il contenuto e, presumibilmente, la complessità delle conoscenze e delle capacità che questa professione richiede (fig. 3). La scarsa visibilità del contenuto della professione veterinaria è particolarmente sottolineata dai più giovani e dagli individui più scolarizzati.
Si tratta di dati significativi, che invitano a riflettere sulla necessità di avviare campagne di promozione e di sensibilizzazione per la promozione del ruolo, degli ambiti professionali e del valore culturale e sociale del medico veterinario, che vadano oltre lo specifico degli addetti ai lavori e che si realizzino nelle scuole, nelle università e sul territorio.
Poco conosciute, anche perché sono meno visibili e danno meno posti di lavoro, risultano le altre opportunità offerte dalla professione, che sono più legate al mantenimento della salute pubblica attraverso la ricerca su farmaci e animali, al controllo e alla certificazione degli animali da allevamento e dei prodotti della filiera dell’industria della trasformazione e della produzione alimentare.
Eppure si tratta di attività cui gli italiani attribuiscono una importanza crescente, addirittura maggiore rispetto alla tutela e al benessere degli animali da compagnia, e che se fossero immediatamente ricondotte alla sfera d’azione del medico veterinario contribuirebbero senza dubbio ad innalzarne la reputazione sociale e a diffondere la consapevolezza del ruolo centrale che questi gioca nella società attuale.
La crescente importanza attribuita alla salute e al controllo di qualità degli alimenti emerge dalle risposte fornite: infatti, l’81,1% degli italiani ritiene che sia molto importante (e il 16,3% abbastanza) fare controlli igienico-sanitari negli allevamenti e il 75,1% attribuisce massima rilevanza ai controlli di qualità negli stabilimenti di produzione e trasformazione degli alimenti di origine animale (tab. 2). Essenziale viene giudicata anche la protezione degli animali in via di estinzione, attività esercitata dai veterinari pubblici (molto importante per il 71,1% della popolazione).
Solo al quarto posto viene indicata la salute degli animali da compagnia (molto importante per il 64,1% degli italiani, e abbastanza per il 30,4%).
Meno importanti vengono giudicate le attività di ricerca sugli animali, che pure richiedono sempre l’intervento del veterinario: il 48,2% della popolazione crede che sia essenziale effettuare ricerche per la selezione ed il miglioramento degli animali da impiegare nel settore della produzione alimentare (attività che è il presupposto per avere una filiera “sicura”) e il 46,0% effettuare ricerche per la produzione di farmaci rivolti agli animali.
[1] Per la descrizione del campione intervistato si veda la Nota metodologica alla fine del testo.
…Che non produce un adeguato riconoscimento economico
Nonostante l’enorme valore sociale del medico veterinario, le competenze e le conoscenze richieste per esercitare la professione sono poco visibili, e tra la popolazione prevale un sentiment che vede il veterinario più come un missionario che come un professionista, più come un animalista che come un medico, e che non attribuisce il giusto valore alle prestazioni che eroga.
Per diventare medico veterinario bisogna affrontare un percorso di studi universitari lungo e complesso, paragonabile, per durata e competenze, a quello che prepara altri due professionisti della sanità, vale a dire i medici chirurghi e gli odontoiatri. Eppure, una volta terminati gli studi, le soddisfazioni economiche che accompagnano queste professioni sono molto diverse.
Lo testimoniano i dati dell’indagine Almalaurea sul reddito medio dei laureati a cinque anni dal termine degli studi, in base ai quali gli odontoiatri hanno un guadagno netto mensile di 2.131 euro, i medici chirurghi di 1.820 euro, mentre i medici veterinari guadagnano in media 1.272 euro al mese (fig. 4).
Una ulteriore conferma della scarsa redditività della professione viene dai dati del Ministero delle Finanze, relativi ai redditi medi dichiarati per il 2016 dalle diverse attività professionali, da cui risulta che il reddito medio annuo di uno studio medico si attesta sui 66.000 euro, quello di un odontoiatra supera i 51.000 euro, mentre gli studi veterinari hanno un reddito medio di 21.160 euro, corrispondente a meno di un terzo di quello di un medico e a meno della metà di quello di uno studio odontoiatra (fig. 5).
Con queste entrate gli studi veterinari si collocano al centocinquesimo posto nella graduatoria dei redditi dichiarati da chi ha un’impresa o esercita lavoro autonomo, guidata dagli studi notarili, seguiti dalle farmacie, dagli studi medici e da quelli odontoiatrici.
Ancora più bassi i valori desumibili dalle dichiarazioni dei redditi degli iscritti alla cassa di previdenza, da cui risulta che il reddito medio annuo dei medici veterinari è di circa 17.554 euro lordi, e che oltre la metà degli iscritti ha un reddito che non raggiunge i 15.650 euro annui.
Tutti dati che evidenziano come la scarsa consapevolezza collettiva della qualità e della complessità della professione si traduca nel mancato riconoscimento da parte del mercato delle funzioni e del valore delle prestazioni erogate dai medici veterinari, che contribuiscono in maniera decisiva a generare qualità della vita di tutti i cittadini.
Il deficit di identità professionale viene da dentro
C’è però un altro elemento che occorre prendere in considerazione nel valutare il valore sociale dei medici veterinari, e che, in qualche modo contribuisce a spiegare anche lo scarso riconoscimento economico della professione: si tratta della percezione negativa e della scarsa considerazione che gli stessi medici hanno del proprio lavoro.
Lo rivela una indagine svolta tre anni orsono dalla Federazione Europea dei Medici Veterinari (FVE) sui medici veterinari dei diversi Paesi europei, che testimonia come quelli italiani si posizionino all’ultimo posto nella graduatoria europea costruita in base all’auto percezione della considerazione sociale della propria professione, guidata dai veterinari che esercitano nei Paesi scandinavi.
Analogamente, i medici veterinari italiani ritengono di avere una pessima considerazione anche da parte dei loro clienti, migliore solo di quella che sono convinti di avere i professionisti bulgari.
Come se non bastasse, una recente indagine di MSD Animal Health Italia rivela che il 48,0% dei proprietari prende le informazioni sulla salute ed il benessere del proprio animale da canali diversi dal medico veterinario, mentre il 54,0% degli italiani non è a conoscenza del fatto che il veterinario svolge un compito importante per proteggere sia l’animale, sia la famiglia.
Si tratta di risultati che denunciano la necessità di lavorare sul senso di appartenenza ad una professione di cui gli stessi medici veterinari non sembrano percepire l’elevato valore sociale e l’intrinseco contenuto tecnico-professionale, e che, al contempo, rimandano al bisogno di potenziare il rapporto medico-cliente riguardo al contenuto e al valore delle prestazioni effettuate, che non possono essere sostituite né da altri professionisti, né tantomeno da informazioni assunte tramite web o altri canali informativi.
Del resto, l’attuale percorso universitario manca completamente di una sezione relativa alla formazione manageriale e relazionale necessaria per gestire strutture medico veterinarie complesse e per districarsi nel rapporto con gli utenti.
I rischi e le opportunità dei cambiamenti demografici in atto
Alla fine del 2018 risultavano iscritti all’ordine 33.302 medici veterinari: nel 2008 erano 26.958, dunque sono cresciuti del 23,5% negli ultimi 10 anni.
Si tratta di oltre 6.000 veterinari in più, soprattutto donne, ad indicare una forte presenza del genere femminile nella professione, determinata dal numero crescente di donne che partecipano e superano i test di selezione universitari. Per avere un’idea della crescita della componente femminile, basti pensare che nel 2008 le veterinarie erano 10.088 e rappresentavano il 37,4% del totale degli iscritti, mentre nel 2018 sono 15.495 e rappresentano il 46,5% (+53,6% nei dieci anni considerati) (tab. 3). Se nel prossimo futuro la progressione dovesse continuare con gli stessi ritmi degli ultimi anni non sembra essere lontano il momento del sorpasso.
L’“avanzata” delle veterinarie, in un quadro complessivo di basso riconoscimento del valore economico delle cure sanitarie erogate, rappresenta un ulteriore campanello d’allarme, in quanto, anche tra i medici veterinari, è presente un gender gap nelle retribuzioni. Lo testimoniano, tra l’altro, i dati desumibili dall’indagine Almalaurea, in base ai quali lo stipendio medio netto dei veterinari a cinque anni dalla laurea è di 1.271 euro, ma per le donne scende a 1.180 euro, mentre tra gli uomini è di 1.456 euro netti mensili. Un divario retributivo che è destinato ad ampliarsi ulteriormente con il passare degli anni, poiché le donne sono le più penalizzate nel momento in cui formano una famiglia e fanno dei figli.
Il rischio è che l’aumento della componente femminile, in assenza di misure ed azioni finalizzate ad assottigliare il divario retributivo esistente e a potenziare la reputazione sociale della professione, trascini sempre più in basso il valore di mercato della attività.
Ma gli ultimi dieci anni non sono da ricordare solo per la crescita degli iscritti all’ordine e per l’aumento della componente femminile: nell’ultimo decennio si è andata anche riarticolando la composizione interna degli iscritti per classi di età come effetto, da un lato, dello sbarramento all’ingresso dell’Università e, dall’altro, dell’invecchiamento della popolazione italiana.
Il risultato e che, tra il 2008 e il 2018, sono leggermente aumentati i giovani iscritti all’ordine che hanno un’età inferiore ai 39 anni (+1,9%), mentre sono diminuiti i quarantenni (-12,1%) e sono decisamente cresciuti gli iscritti che hanno tra i 50 e i 60 anni (+38,8%) e, soprattutto, gli over 60 anni (+337,1%).
In valore assoluto, gli under 50 nel 2008 erano 19.085 e pesavano per il 70,8% sul totale degli iscritti; nel 2018 sono 18.150 e rappresentano il 54,5% degli iscritti. Sul fronte opposto, gli over 60 oggi sono 6.193, pari al 18,6% del totale, mentre nel 2008 erano 1.417, pari al 5,3%.
I dati sugli iscritti all’ordine per ambito professionale mostrano con chiarezza come la maggior parte dei medici veterinari si orienti verso la libera professione (78,3% del totale), mentre sono in minoranza quelli che esercitano presso le strutture territoriali del servizio sanitario nazionale, o presso le amministrazioni centrali dello Stato (15,9%), e addirittura residuali quelli che sono impiegati in strutture private (1,4%)(tab. 4). Rispetto a soli cinque anni fa, è da segnalare una diminuzione dei medici veterinari che lavorano nel settore pubblico (nel 2013 erano il 18,0% del totale), ed un aumento dei privati (che nel 2013 erano il 77,0% del totale).
La concentrazione degli appartenenti all’ordine nella libera professione è ancora più evidente tra i più giovani: il 90,8% dei medici veterinari di età inferiore ai 39 anni lavora nel settore privato, e tra questi il 90,3% è un libero professionista, e l’1,2% lavora nel settore pubblico, mentre tra i quarantenni il 94,0% esercita come libero professionista e il 4,3% nel settore pubblico. Assolutamente diverso è il rapporto tra impiego pubblico e privato per gli iscritti che hanno tra i 50 e 60 anni, tra i quali il 22,3% è dipendente pubblico, e tra chi supera i 60, tra cui ben il 45,5% è un dipendente pubblico (tab. 5).
I dati relativi ai medici veterinari occupati all’interno del Servizio Sanitario Nazionale con esclusione dei dipendenti Ministeriali – purtroppo fermi al 2016 – mostrano con evidenza quanto sta accadendo: dal 2008 al 2016 si è passati da 5.792 a 5.312 medici veterinari in attività nel SSN, con una diminuzione in valore assoluto di 480 dipendenti (-8,3% del totale) (tab. 6).
Nello stesso arco di tempo, i dipendenti di età inferiore ai 59 anni, che nel 2008 erano il 94,5% del totale, nel 2016 sono scesi al 68,9%; sul fronte opposto, gli over 60 nel 2016 sono il 31,1% del totale dei veterinari pubblici, in crescita del 423,1% negli otto anni considerati e del 21,2% nel solo ultimo anno.
Una recente indagine condotta dal SIVeMP sul 90,0% delle strutture sanitarie pubbliche fotografa una situazione al 2017 che è ancora più preoccupante, con il 41,0% degli organici in servizio che superano i 60 anni di età.
È questo l’effetto del blocco del turn over nelle amministrazioni pubbliche degli ultimi anni, ma è anche la spia di quello che sta per accadere: molti medici veterinari in servizio nelle strutture pubbliche, centrali o territoriali, a breve andranno in pensione e dovranno essere sostituiti se si vogliono continuare a presidiare con successo le funzioni essenziali di prevenzione e tutela della salute pubblica che attualmente i veterinari sono chiamati a garantire.
Auspicando che la fine della crisi economica porti con sé anche una ripresa delle assunzioni, è però fondamentale che i giovani medici veterinari si facciano trovare pronti a questo appuntamento, in modo che non gli vengano preferiti altri profili professionali sanitari, come i biotecnologi o i tecnici di igiene, o non sanitari, come i tecnologi alimentari.
Le sfide della formazione in risposta ad un mercato che cambia
Negli ultimi anni il corso di studi in medicina veterinaria ha avuto un appeal crescente, testimoniato dalla crescita degli studenti che partecipano al test di ingresso: questi ultimi sono passati dai 5.205 del 2009 ai 6.901 del 2017 (+32,6%) (tab. 7), con un’inversione di tendenza nel 2018, in cui si è avuta una diminuzione dei giovani aspiranti, che sono stati 6.603.
Questa riduzione si è verificata nonostante proprio in quest’anno accademico i posti complessivamente disponibili siano stati aumentati, e portati a 759 (contro i 655 dello scorso anno accademico, quando gli ingressi effettivi sono stati 695): gli anni a venire saranno fondamentali per capire se quanto accaduto sia solo un fatto episodico, o se invece si sia ormai raggiunto il serbatoio massimo di aspiranti alla professione.
Negli ultimi nove anni si è passati da una media di un iscritto al corso di studi ogni tre partecipanti al test, ad una media di un iscritto su dieci aspiranti: dati questi che lascerebbero supporre anche un innalzamento del livello medio di preparazione dei nuovi iscritti.
Il numero di iscritti a cui si è arrivati è destinato negli anni a produrre un numero decrescente di laureati, che dovrebbero essere assorbibili in tempi più brevi degli attuali dal mercato del lavoro: nel 2017 si sono avuti 934 laureati, il 69,8% dei quali sono donne.
Le informazioni che si ricavano dall’indagine Almalaurea, che interroga i laureati tramite un questionario somministrato via web o via telefono, fotografano una situazione, a cinque anni dalla laurea, di buona occupabilità, con l’84,4% di laureati in medicina veterinaria che dichiara di lavorare, il 93,2% dei quali nel settore privato (tab. 8). Nella stragrande maggioranza dei casi (73,2%) gli intervistati dichiarano di essere occupati in un lavoro autonomo, mentre solo il 7,5% ha un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato.
Complessivamente i giovani medici veterinari mostrano un buon grado di soddisfazione per il lavoro svolto (7,3/10), e il 92,9% rileva l’efficacia della laurea per lo svolgimento dello stesso, ammettendo, implicitamente, che il percorso di studi attuale è prevalentemente orientato alla clinica dei piccoli animali.
Andando ad analizzare quanto avuto dall’Università in termini di conoscenze e di capacità, si nota come, a fronte del riconoscimento da parte del 72,4% dei laureati di un consistente utilizzo nel lavoro delle competenze acquisite, vi sia qualche perplessità sull’adeguatezza della formazione professionale, ovvero sulle capacità operative che l’Università è stata in grado di trasferire (il 53,1% giudica molto adeguata la formazione professionale ricevuta, il 38,7% poco adeguata e il 7,7% per niente adeguata).
Considerando che la maggior parte dei professionisti in attività ha un’età che supera i 50 anni, la sfida che si presenterà ai medici veterinari del futuro (e conseguentemente alle istituzioni deputate alla loro formazione) non sarà tanto quella di trovare un’occupazione, quanto piuttosto quella di avere un adeguato riconoscimento professionale ed economico rispetto ad un’attività che richiede competenze sempre più complesse ed articolate, che non si esauriscono nell’ambito sanitario. La formazione dovrà essere sempre più di qualità e sempre più orientata alla effettiva domanda espressa dal mercato del lavoro.
In altre parole, i medici veterinari del futuro dovranno essere in possesso di una “cassetta degli attrezzi”, ovvero di un bagaglio di conoscenze e di capacità operative che consenta loro di andare a riempire gli spazi lasciati vuoti dai colleghi più anziani e insieme di riuscire ad affermarsi nei nuovi spazi che si sono creati e si creeranno nei prossimi anni. In questi spazi sempre più spesso i medici veterinari si trovano a dover competere con professionisti che hanno un diverso background culturale, ma soprattutto che hanno formazione e titoli diversi. Si pensi, solo per fare un esempio, alla concorrenza dei tecnologi alimentari e biologi per i ruoli di controllo e certificazione all’interno della filiera alimentare, o degli agronomi e dei laureati in scienze della produzione animale come consulenti dell’alimentazione negli allevamenti e nelle aziende di produzione alimentare. Inoltre dovranno essere capaci di gestire al meglio il rapporto con il cliente, ed essere in grado di promuovere un servizio che si occupi a trecentosessanta gradi del benessere dell’animale.